30 gennaio 2018

PALAZZO ITALIA: RICOVERO INADATTO PER RICERCATORI

Seguire il filo rosso per capire


Da un paio di mesi un primo gruppo di ricercatori è al lavoro a Palazzo Italia, in una landa per il momento desolata e in un edificio tra i meno adatti per ospitare un Istituto di ricerca. Cosa è successo e perché parlarne? Le cose vanno raccontate visto che storie come questa, tipicamente italiane, rischiano di ripetersi all’infinito se non ci saranno uomini di buona volontà per riscrivere il Codice degli appalti e le leggi che regolano la spesa dello Stato, rendendo inutile l’Anac* e il diluvio di pareri e decreti del povero Raffaele Cantone nel suo inutile sforzo di arrestare un torrente in piena: quello della corruzione.

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Ho letto di recente che la corruzione è un fatto di cultura. Certo cultura morale ma anche cultura legislativa e quest’ultima è radice prima della corruzione in atti amministrativi.

Sino ad ora si è parlato solo dell’appalto di Palazzo Italia che ha visto indagato dalla magistratura Antonio Acerbo (ex sub-commissario di Expo che ha patteggiato 3 anni di reclusione per un’altra turbativa d’asta, quella sulle “Vie d’Acqua”) per aver pilotato l’aggiudicazione insieme a Stefano Perotti incaricato della progettazione e direzione dei lavori, Giacomo Beretta e Andrea Castellotti. Nell’inchiesta troviamo, naturalmente, l‘impresa esecutrice Italiana Costruzioni e i suoi dirigenti. Sul finire dei lavori Raffaele Cantone commissariò l’impresa per garantire il completamento del cantiere e Giuseppe Sala, amministratore delegato di Expo, dovette dire “comunque i lavori non si fermano”.

Sotto l’occhio vigile di Cantone, si è giunti alla liquidazione finale dei lavori e all’impresa furono pagati 53 milioni di euro per un appalto che era stato aggiudicato per 27 milioni. La differenza fu riconosciuta per varianti chieste dal committente, completamenti e premi di accelerazione. Normale? In Italia sì, ma così non può continuare soprattutto perché siamo alla vigilia di grandi appalti di opere sia nell’area di Expo sia in Comune di Milano, a partire dalla riqualificazione del patrimonio di edilizia residenziale pubblica.

 

Ma quando è cominciata la vicenda di Palazzo Italia? Molto prima del bando per l’appalto, in un teatrino che vede sempre gli stessi personaggi e che spiega molte cose, anzi tutte.

Nel novembre 2012 venne bandito un concorso “internazionale” con un bando nel quale erano indicate le condizioni di partecipazione, le caratteristiche generali dell’edificio, il tipo di qualifiche necessarie per parteciparvi e tutto quel contorno di norme che di solito fanno parte di un bando, compreso un Documento preliminare alla progettazione. Nel bando si indicava come sarebbe stata formata la commissione aggiudicatrice, e la commissione tecnica, che avrebbe valutato la rispondenza dei progetti al bando.

Nel bando erano indicate, tra le altre, tre caratteristiche: la richiesta di utilizzo di sistemi di prefabbricazione per accelerarne l’esecuzione, la eventuale riutilizzabilità di questi elementi ma soprattutto particolare attenzione agli eventuali utilizzi “post Expo”, come spazi destinati ad ospitare nuove e ben diverse funzioni: nel caso di oggi per un centro di ricerca. L’ammontare previsto per le opere era fissato in 40 milioni di euro e questo limite non poteva essere superato. Era previsto che i progettisti redigessero un computo per giustificare di esser rimasti entro la somma prevista, condizione né banale né facile vista le dimensioni e le caratteristiche dell’edificio.

Prima considerazione. Il gruppo dei progettisti selezionati, cinque per l’esattezza, i conti li sapeva fare. Come è possibile che avessero progettato opere che stimavano per un costo di 40 milioni cui succedette una gara d’appalto vinta da una impresa che ne offriva solo 27?

I progetti selezionati, accompagnati dalla relazione dei tecnici furono sottoposti alla commissione aggiudicatrice, che determinò il vincitore. Il meno aderente al bando.

La commissione aggiudicatrice era formata da ingegner Acerbo (presidente e del quale abbiamo già parlato) dall’architetto Mariani, dall’ingegner Antinori e dall’avvocato Cupiccia, tutti dunque membri “interni” e dall’architetto Viel, unico membro esterno. Il progetto vincitore era uscito massacrato dalla commissione dei tecnici che aveva preceduto la commissione aggiudicatrice, parere fin troppo generoso. Allego il relativo verbale (il primo nell’allegato) insieme ai giudizi sugli altri progetti, ben diversi. Vale la pena di leggerlo e confrontarlo. Eppure vinse con un meccanismo di punteggi, fatto secondo le norme del Codice degli appalti, che in buona sostanza consente il massimo arbitrio a giurati che debbono giudicare con criteri ovviamente “personali” . La scheda finale di valutazione ne dà conto.

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La ricorrenza dei nomi mi fa nascere molti sospetti oltre a notare la assoluta “inadeguatezza” della commissione a giudicare in un concorso internazionale di quella importanza e notorietà.

Un progetto incompleto, come quello vincitore, sta sempre alla base di un appalto il cui importo viene travolto dall’importanza delle varianti che troppe volte abbiamo visto essere strumento di “rimonta” economica delle imprese. Come nel caso di Palazzo Italia.

Dobbiamo aggiungere altro? Sì.

Vorremmo vedere la liquidazione finale dell’appalto con quanto è stato aggiunto, a quel che si mormora, agli stralci e agli apporti di sponsor privati per non parlare della vicenda della gestione durante la manifestazione.

Una storia italiana, come ho detto, che come altre comincia fin dalle prime fasi e segue un percorso “esemplare” ma pilotato da qualcuno. Il risultato? Tanti soldi per un edificio di dubbio razionale utilizzo.

 

Luca Beltrami Gadola

*) Autorità Nazionale Anti Corruzione



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