13 dicembre 2017

musica – L’ANDREA CHÉNIER DELLA SCALA


Confesso di aver fatto molta fatica a farmi un’opinione limpida e definita sull’Andrea Chénier che ha inaugurato la stagione lirica della Scala. Ho visto l’opera su un grande schermo al MA.MU., insieme ad una cinquantina persone che hanno manifestato – chi più chi meno – grande entusiasmo. Poi ho raccolto molti pareri, soprattutto di chi l’ha visto in teatro. E qui devo dire che i pareri erano meno concordi. Generalmente positivi, ma anche molti incerti ed alcuni decisamente negativi.

musica41FBCome ne ho scritto cinque anni fa, e riportato nella rubrica della settimana scorsa, credo che l’opera sia un vero capolavoro, sorprendentemente bella, convincente, penetrante; conserva una grande attualità sia per la denuncia delle disuguaglianze – e dalle violenze che da quelle possono derivare – sia per l’intreccio amoroso fra la ricca e nobile signora, l’intellettuale sognatore e il rude ma saggio proletario/rivoluzionario. Struggente e coinvolgente.

È un’opera che entra nella storia e che sa coniugarne i grandi eventi con i sentimenti della gente, sa metterne insieme il risvolto pubblico e quello privato, ne evoca le grandezze e le miserie. Il tutto raccontato con un linguaggio poetico ed essenziale, con la musica che accompagna le note alle sillabe, una ad una, e il canto che fluisce ininterrottamente così come i fatti che sta narrando.

Detto che la direzione di Chailly mi è sembrata tecnicamente e musicalmente più che corretta; che le voci dei tre protagonisti – anche a dispetto, come si sa, di qualche malevolo pregiudizio – erano belle e possenti; che le scene, i costumi e le luci erano armoniosamente legate al libretto e fedeli interpreti della trama; detto tutto ciò – ed avendo dunque ben poco da ridire sullo spettacolo nella sua coerenza e solidità – come esprimere la sottile e quasi impercettibile delusione di non esser riuscito a goderlo, a gioirne, a commuovermi, a lasciarmi rapire, a farlo scendere nelle viscere e nell’anima? E a riconoscere che sono rimasto freddo, che non ho provato grandi emozioni né per la vicenda né – ancor più grave – per la pur bellissima musica?

Tenterò una spiegazione.

Mi sono fatto l’idea che tutti gli interpreti dell’opera – dal direttore d’orchestra ai cantanti, protagonisti e comprimari, fino al regista e compresi scenografa e costumista – fossero come intimoriti dall’azzardo di portare in scena un’opera poco nota, di un autore dai più dimenticato (Giordano, chi era? in che epoca è vissuto?), con un libretto scritto in un linguaggio sostanzialmente arcaico per quanto poetico e raffinato, con un tenore debuttante sospettato di essere stato imposto (qualcuno parlava di ricatto!) dalla moglie-diva, con il pubblico della prima che non è mai troppo preparato e che vorrebbe sempre e solo opere celebri e arcinote, e con il loggione che, si sa, è sempre in agguato … Ho avuto la sensazione che tutto ciò abbia, diciamo così, invitato alla prudenza e costretto a giocare in difesa. Così per esempio Chailly non si è lasciato troppo andare e la sua interpretazione, ancorché nitida ed elegante, è risultata un po’ algida, la sua lettura non sempre ispirata ma tesa più a convincere gli ascoltatori che ad entusiasmarli; mentre i due protagonisti, nonostante abbiano dato nei fatti un’ottima prova, non riuscivano a celare l’ansia per il debutto di lui.

Indenne da questa sindrome si è rivelato il solido baritono parmense Luca Salsi che – nella difficile parte di Gerard, prima servo e poi rivoluzionario, amico di Andrea ma come lui innamorato di Maddalena – ha mostrato una considerevole sicurezza ed una formidabile padronanza della propria voce e del personaggio di cui vestiva i diversi panni.

Della regia di Martone – e così delle scene, dei costumi, delle luci – vien da dire che tutti per rassicurare il pubblico abbiano frenato la creatività privilegiando la tradizione: l’azione sembrava uscire da una grande tela di Jacques Louis David, come a confermare che tutto era proprio così e che non vi è stato aggiunto alcunché di nuovo. Credo che persino chi non ha mai amato certe regìe eccessivamente fantasiose – e fra questi chi scrive – abbia trovato platealmente scontata la rappresentazione della decadente nobiltà francese e del sanculottismo che la detronizzava.

Bella, dunque, sontuosa, messa impeccabilmente in scena e perfettamente eseguita, cantata, recitata, ma non ruggente e commovente come dovette apparire a chi la vide la prima volta centovent’anni fa, proprio alla Scala, poche settimane dopo il battesimo della Bohème a Torino (e, si noti bene, tre anni dopo l’ultima opera di Verdi), in un momento in cui il melodramma procurava emozioni profonde anche grazie a continue e grandiose innovazioni. Chissà, forse le repliche, brillantemente superata l’ansia della fatidica prima, saranno perfette. Auguriamocelo.

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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