5 dicembre 2017

musica – L’ULTIMO ANDREA CHÉNIER


In una settimana come questa, in cui tutta Milano non parla d’altro che dell’Andrea Chénier – l’opera di Umberto Giordano con cui il giorno di Sant’Ambrogio si inaugurerà la stagione lirica della Scala con l’attesa direzione di Riccardo Chailly – ci sembra giusto riproporre la rubrica del 27 giugno 2012 di Arcipelago Milano nella quale commentavamo l’ultima esecuzione milanese di questa bellissima opera, quando fu data in forma di concerto all’Auditorium magistralmente diretta da Jader Bignamini. Eccola.

musica40FB«In tempi grami come quello che stiamo vivendo, allestire un’opera lirica “in forma di concerto” – vale a dire con l’orchestra, il coro ed i cantanti sul palcoscenico, intorno al direttore, senza scenografia né costumi, senza effetti di luci né una vera e propria recitazione se non il cantare in sé, dietro un leggio – è una gran trovata, nel senso che permette di godere l’essenziale dell’opera evitando di affrontare gli ingenti investimenti ch’essa sempre comporta non solo, appunto, per le scene, i costumi eccetera, ma soprattutto per l’innumerevole quantità di prove che altrimenti precedono ogni “prima”.

«Per questo non possiamo che essere grati alla Verdi – o all’Auditorium che dir si voglia – per la tradizione che sta poco a poco costruendo a partire dal bellissimo “trittico” pucciniano – Gianni Schicchi, Il tabarro e Suor Angelica – dato dieci anni fa in questa forma e diretto da Riccardo Chailly (che ieri sera era in sala, entusiasta per l’opera di cui stiamo per dire). D’altronde così l’anno scorso alla Scala fu dato il Fidelio beethoveniano e fra qualche giorno, nel fantastico cortile del Palazzo dei Priori di Viterbo, si ascolteranno le Nozze di Mozart.

«Dunque in questi giorni all’Auditorium è andato in scena – senza scena – l’Andrea Chénier di Umberto Giordano e durante l’intera esecuzione ci siamo chiesti come sia possibile che un’opera tanto bella sia così poco rappresentata. Eppure molti non hanno dimenticato – grazie anche ad un ottimo disco – la memorabile edizione del 1955 alla Scala con Maria Callas e Mario Del Monaco diretti da Antonino Votto. E’ un’opera che appartiene al momento magico del verismo e dei grandi capolavori partoriti negli ultimi dieci anni dell’ottocento: andò in scena alla Scala nel 1896, quattro mesi dopo Bohème, dopo Cavalleria Rusticana (1890) e prima di Tosca (1900) di cui anticipa i sentimenti, le passioni forti e l’atmosfera politica (con Tosca siamo nella Roma papalina dell’anno 1800, con Chénier nella Parigi della Rivoluzione e del Terrore degli anni di poco precedenti). Mentre i libretti dei due capolavori pucciniani sono stati scritti a quattro mani da Illica e Giacosa insieme, l’opera di Giordano porta la sola firma del più prolifico dei due, Illica, e dobbiamo dire che nonostante alcune pagine di grande poesia, non è fra i libretti più leggibili e riusciti fra gli ottanta scritti dal famoso drammaturgo piacentino.

«Venendo all’esecuzione della Verdi ci compiacciamo fortemente di veder confermato il giudizio più che lusinghiero espresso qualche mese fa sul giovane direttore d’orchestra Jader Bignamini: parlammo di “vera rivelazione” in occasione di un concerto interamente dedicato a Musorgskij, ma non avremmo mai immaginato che le stesse doti di concertatore e direttore avrebbe rivelato poche settimane dopo in un’opera lirica, ed in un’opera tanto difficile come questo Chénier che vede insieme l’orchestra, il coro (bravissima sempre Erina Gambarini) e ben undici cantanti.

«Tutto bene dunque? Quasi. Qualche osservazione va fatta. Mediamente di buona qualità i cantanti, fra cui eccellevano – grazie anche alle loro parti – il baritono Alberto Gazale (il proletario rivoluzionario Gérard che diventa l’aguzzino dell’amico poeta ma alla fine si ravvede e tenta di salvarlo) e la giovane americana Natalie Bergeron (cui bisognerebbe consigliare un buon sarto italiano) nella parte della innamorata ed eroica Maddalena, ottima nella prima parte dell’opera, un po’ meno nella seconda. Chi non ha brillato affatto è stato invece il protagonista, il tenore Marcello Giordani, sempre sopra le righe e molto preoccupato di mostrare i muscoli (l’indiscutibile potenza della voce) ma per nulla attento al carattere del suo personaggio: più che un poeta sembrava un boxeur. E di certo non l’ha aiutato il fatto di essere l’unico uomo senza frac fra tutti i musicisti sul palcoscenico (direttore, orchestrali, coristi, cantanti), addirittura con una orrenda cravatta gialla. Diranno i lettori che queste note sugli abiti degli interpreti hanno poco di musicale, è vero, ma quando il musicista recita una parte in un’opera, il suo abito diventa costume e fa tutt’uno con il personaggio che interpreta.

«Dopo aver detto che l’opera data in forma di concerto è magnifica – e può addirittura essere preferibile per chi ama concentrarsi sulla musica più che sulla vicenda narrata – vorremmo osservare che anch’essa ha bisogno di un minimo di regia affinché possa essere compresa ed apprezzata dal pubblico. Per esempio quell’andirivieni continuo dei cantanti fra le file dell’orchestra per entrare ed uscire dalla scena non va affatto bene, molto meglio tenerli tutti seduti e farli alzare di volta in volta quando è il loro momento. E poi, se vogliamo da parte loro qualche accenno di recitazione, che non nuoce affatto, bisogna che non sia limitato a quelli più disinibiti ma che sia un comportamento coordinato, armonico e condiviso da tutto il cast.

Soprattutto vi è un problema di “racconto” dell’opera. E’ stato un grande passo avanti aver introdotto la proiezione dei testi sugli schermi posti sopra il palcoscenico o – come alla Scala – con un display collocato sulle poltrone della fila anteriore ma, in assenza della scena, bisogna che qualcuno ce la racconti a parole, magari quelle stesse parole che si trovano nel libretto e che l’autore usa per indirizzare lo scenografo; dobbiamo almeno capire dove siamo, cosa sta accadendo, e quando sullo schermo compare un testo sarebbe bene che fosse preceduto dal nome del personaggio che lo sta cantando.

«Proporre a Milano un’opera deliziosa che non si sentiva da anni (per i più giovani è stata la prima occasione per ascoltarla!), e proporla “in forma di concerto”, fa parte di quella straordinaria capacità innovativa dell’Auditorium che rende le sue stagioni impagabili. Con l’Andrea Chénier si è magnificamente conclusa la stagione sinfonica ed ora non c’è che attendere – con il concerto del 5 luglio che vedrà protagonista il pianista-pilota Roberto Cominati di cui parlammo quindici giorni fa – l’inizio della nuovissima stagione estiva».

Ecco, c’è da sperare che “quella straordinaria capacità innovativa…che rende(va) le sue stagioni impagabili” ritorni presto nella bella sala di largo Mahler. Noi, che siamo sempre stati sinceri ammiratori de “laVerdi”, abbiamo sofferto molto nell’assistere all’ultima deludente prova della Nona Sinfonia di Mahler diretta da Claus Peter Flor. Che succede?

questa rubrica è a cura di Paolo Viola
rubriche@arcipelagomilano.org



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