28 giugno 2017

musica – MISSA SOLEMNIS


L’ultimo concerto della stagione sinfonica della Scala – che come si sa è una orchestra solo formalmente diversa da quella della Filarmonica – era molto atteso per almeno due motivi: sia perché la Missa Solemnis per soli coro e orchestra in re maggiore di Beethoven (una delle sue ultime opere, con il numero 123 di catalogo sul totale di 138) non si ascolta tanto spesso, sia perché era diretta da Bernard Haitink che gode fama di essere il maggior direttore vivente. Una fama consolidata recentemente anche qui da noi poiché nel gennaio dello scorso anno arrivò per la prima volta alla Scala dirigendovi un Deutsches Requiem di Brahms di cui si dissero meraviglie.

musica24FBA differenza del Requiem di Mozart, di quello “tedesco” brahmsiano e della sublime Messa da Requiem di Verdi, questa Messa Solenne di Beethoven, pur essendo un’opera importante e fortemente innovativa, non è un capolavoro di quelli che trascinano gli ascoltatori e creano grandissime emozioni. È fra l’altro curioso, parlando di queste Messe e di questi Requiem, osservare come nessuno dei musicisti citati abbia manifestato una vera vocazione religiosa, soprattutto nei confronti della religione praticata e dunque con uno specifico interesse alla liturgia; anzi, conoscendo i loro stili di vita ed alcune loro dichiarazioni, si direbbe esattamente il contrario.

Beethoven si accostò alla musica sacra solo tre volte: prima dell’opera 123 scrisse l’Oratorio Christus am Ölberge, op. 85 del 1803, e la Messa in do maggiore, op. 86 del 1807 (dunque coeva della Quinta e della Sesta Sinfonia), opere entrambe modeste se paragonate a quelle cui egli attendeva negli stessi anni. Solo dodici anni dopo scrive questa Missa Solemnis (coeva dei suoi massimi capolavori e cioè degli ultimi Quartetti e delle ultime Sonate per pianoforte) quasi su commissione, nel senso che essa – se fosse stata ultimata in tempo – avrebbe dovuto accompagnare la consacrazione ad arcivescovo del suo allievo e protettore l’arciduca Rodolfo d’Asburgo.

L’opera gode di grande celebrità non solo per la sua conclamata solennità e perché sostanzialmente unica nella ricca produzione beethoveniana, ma anche perché Beethoven stesso la considerava una delle sue opere più riuscite; giudizio che oggi condividiamo in parte, se non altro per alcuni momenti magici e di altissima poesia come il sorprendente assolo di violino del Benedictus, che dura ben 123 battute (il numero d’opus della Messa, un caso?), eseguito magnificamente l’altra sera dalla spalla dell’orchestra Francesco Manara.

Ma quest’opera ha anche una storia molto complicata, sia per l’impegno o la fatica della sua composizione, durata quasi quattro anni, sia per l’uso a dir poco spregiudicato che l’autore ne fece dopo, quando – fallito l’obiettivo di celebrare l’amico Rodolfo – cercò finanziatori ed editori in tutta Europa commettendo inenarrabili pasticci (Sandro Cappelletto ha fatto una accurata indagine su queste ambigue vicende svelando risvolti abbastanza sorprendenti del carattere di Beethoven). Un episodio in particolare mette in luce la spregiudicatezza del Nostro, quando egli scrive di volerne tradurre o far tradurre il testo in tedesco allo scopo di far accogliere la Messa nella liturgia protestante oltre che in quella cattolica – ma senza alcun intento ecumenico, solo economico!

Venendo all’esecuzione di questi giorni alla Scala corre l’obbligo, ancora una volta, purtroppo, di riportare una grande delusione, ampiamente condivisa con la parte più accorta del grande pubblico che riempiva la sala; tanto era palpabile prima dell’inizio l’attesa nei confronti di questo concerto quanto lo è stato, subito dopo gli applausi di rito, lo scontento.

Haitink – che dobbiamo ricordare essere nato nel 1929, per cui il solo fatto di essere ancora sul podio e di aver ancora qualcosa da dire gli fa ovviamente merito – ha diretto questa Messa con una pedanteria e una piattezza quasi provocanti, giocando tutto sulla proporzione – o sproporzione – dei volumi sonori fra coro e orchestra; il coro ha dominato in modo inaccettabile tutta l’opera con esagerata potenza sicché anche i solisti (molto elegante la vocalità del soprano Camilla Tilling, decisamente superiore a quella dei colleghi) sono stati sovrastati dalla massa corale; tanto da far perdere gran parte dei delicati e teneri passaggi che la partitura affida alle loro voci.

Sembrava che il direttore non volesse attribuire alla partitura altro significato che quello sprigionato dalla sua semplice, asettica lettura. Ma con tale presupposto non avrebbe senso alcuno riascoltare per anni e per decenni le stesse opere, identicamente ripetute, senza aggiungervi il sale di interpretazioni ogni volta nuove che facciano misurare il trascorrere del tempo. L’esecuzione musicale è un evento che coinvolge tre soggetti: l’autore, l’interprete e l’ascoltatore.

Se il primo resta sempre lo stesso (ma ne siamo proprio sicuri? non ne scopriamo nel tempo sempre nuove sfaccettature?) l’interprete e l’ascoltatore non possono non cambiare continuamente nel tempo e grazie a ciò l’opera, quando continua ad essere eseguita, acquista quella miracolosa aura di eternità. Non è sembrato poter cogliere da parte di Haitink alcuno sforzo teso a riscoprire la Messa di Beethoven ed a farne emergere significati inesplorati o pieghe nascoste. Un vero peccato, perché oltre tutto chissà mai quando potremo riascoltarla.

Paolo Viola

***

Riceviamo e pubblichiamo un commento:

A PROPOSITO DI “PER L’EUROPA E PER MILANO”

L’intervento Per l’Europa e per Milano, pubblicato sul n. 23 di ArcipelagoMilano nella rubrica Musica, restituisce con grande efficacia la complessità degli eventi, offrendone una visione completa, lucida, ricca e sfaccettata con cui l’autore, virgin di servo encomio e di codardo oltraggio, controbilancia il surplus di retorica di cui il “concerto per l’Europa” – e secondo me anche il “concerto per Milano” – era rigonfio (a partire dal nome).

Visto il grande successo di pubblico riscosso da entrambi gli appuntamenti, Viola si chiede se “la musica classica sia elitaria come si crede […], se non sia da ripensare il modo di offrirla al pubblico, se non sia piuttosto la sala da concerto con le sue regole e i suoi riti a tener lontana la gente”. Di fatto, dunque, pone una questione: con cosa sostituire la sala da concerto? Egli individua nell’ambiente che si crea attorno alla sala da concerto la causa del distacco del pubblico, e nella sostituzione della sala da concerto con un ambiente diverso la soluzione.

Ma cosa può rendere un luogo per la musica – quella suonata negli auditorium! – “adatto a tutti”? Sono le persone l’anima del luogo e perciò il solo sostituire potrebbe portare, alla lunga (semplificando e senza tener conto di tante altre variabili), a due “casi”: il primo è la rigenerazione altrove del medesimo attuale clima; il secondo la nascita di un divario, nel quale i nuovi spazi potrebbero diventare luoghi paralleli e addirittura rivali degli auditorium, come in una specie di antitesi tra un pubblico borghese-conservatore e un altro rivoluzionario-democratico. In entrambi gli scenari la situazione di fondo non cambierebbe se non per il fatto, non da poco, che nel secondo si potrebbero generare interessanti dibattiti tra ascoltatori e confronti tra modi di ascoltare.

Ritengo che i comportamenti e i preconcetti sia del profano sia dell’habitué delle sale, come parti di uno stesso uroboro, trovino conferma e forza l’uno nell’altro, alimentando così la loro diffusione e i conseguenti pregiudizi. Generare un cambiamento nelle persone, più che nei luoghi, potrebbe invece essere la chiave per rendere gli auditorium un luogo a tutti familiare quanto Piazza del Duomo. Ma quali aspetti cambiare e come?

La musica è classica, in senso lato, quando sembra sempre dire qualcosa di nuovo. Parla a tutti, purché la si ascolti; e l’ascoltarla è anche un ascoltarsi e un ritornare a un oggi che quanto più si complica tanto più è rifuggito. In questo senso il teatro è custode e culla di valori. Non solo: da un punto di vista più pragmatico, la sua architettura è pensata per garantire un’acustica ottimale, che non può venir meno in cambio della suggestività, familiarità e capienza di spazi come il Duomo o la sua piazza.

È inoltre aberrante pensare che il luogo possa influenzare il grado di impegno richiesto dal tipo di ascolto; piuttosto può alterare, di tale impegno, la percezione. Per questi motivi non credo che sia questa la strada per rendere più appetibile la musica. Credo nell’efficacia di un’operazione culturale profonda e costante in cui tutti, sale da concerto comprese (che potrebbero tra loro fare rete) giochino un ruolo di primo piano.

Mi chiedo quindi in che modo siano stati percepiti i due concerti dai non-habitué: come eventi isolati, ricorrenze annuali, diversivi che “ci stanno”, oppure come inviti a esplorare la musica classica e con essa stringere amicizia?

Un’altra osservazione: al concerto per Milano posti a sedere a disposizione di tutti avrebbero consentito un controllo più illuminato delle presenze, fornito migliori condizioni per godere della musica (non si trattava del concerto di Radio Italia!) e reso, agli occhi di coloro che intorno a me soffrivano nel fisico per le ore passate in piedi (c’è stato anche chi è svenuto), meno prepotentemente evidente il recinto di posti a sedere riservati di fronte al palco. Era facile trarre la conclusione che la musica fosse per tutti ma per alcuni un po’ di più. Il divario esiste dal momento in cui viene immaginato; non dipende da musica e luogo e se viene percepito allora può essere superato, anche a partire dall’azione spontanea dei singoli – a patto che di singoli non rimanga.

Come suscitare allora sensibilità e spirito di iniziativa? La riflessione è un diapason – e l’impertinenza di certi ascoltatori lo fa risuonare.

Alessia Nasoni

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org



Condividi

Iscriviti alla newsletter!

Per ricevere in anteprima sulla tua e-mail gli articoli di ArcipelagoMilano





Confermo di aver letto la Privacy Policy e acconsento al trattamento dei miei dati personali



Sullo stesso tema





9 aprile 2024

VIDEOCLIP: LA MUSICA COME PRODOTTO AUDIOVISIVO

Tommaso Lupi Papi Salonia






20 febbraio 2024

SANREMO 2024: IL FESTIVAL CHE PUNTA SUI GIOVANI

Tommaso Lupi Papi Salonia



20 febbraio 2024

FINALMENTE

Paolo Viola



6 febbraio 2024

QUANTA MUSICA A MILANO!

Paolo Viola


Ultimi commenti