13 giugno 2017

musica – PER L’EUROPA E PER MILANO


Due eventi musicali hanno coinvolto i milanesi e il loro Duomo in queste due prime settimane di giugno, due eventi simili eppure molto diversi, quasi opposti: sabato 3, dentro la Cattedrale, la Curia ha offerto ai milanesi una Nona Sinfonia di Beethoven eseguita dalla Orchestra e dal Coro del Teatro San Carlo di Napoli diretti da Zubin Metha. Domenica 11, nella Piazza del Duomo, la Filarmonica della Scala si è esibita in un concerto “civico” diretto da Riccardo Chailly con un programma un po’ più articolato, incentrato sul Concerto per violino e orchestra di Čajkovskij e su musiche italiane del Novecento.

musica22FBIl primo concerto – preceduto da una prolissa presentazione del presidente della Veneranda Fabbrica del Duomo, infarcita di ridondanti ringraziamenti – era patrocinato dal Parlamento Europeo, dal Senato della Repubblica e dalla Camera dei Deputati, dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri e dal Ministero dei Beni e Attività Culturali e del Turismo, dalle Regioni Lombardia e Campania, dai Comuni di Milano e Napoli, e ovviamente dall’Arcidiocesi di Milano; il secondo, offerto dal Comune e dall’Orchestra milanesi, era sponsorizzato da due banche. Stop.

Si dirà che il primo (detto “Concerto per l’Europa”) prevedeva i costi della trasferta da Napoli a Milano e che oltre all’Orchestra vi erano impegnati l’intero Coro e ben quattro solisti, mentre il secondo (detto invece “Concerto per Milano”) all’Orchestra aggiungeva un unico solista; ma la gigantesca sproporzione fra i “padri” dei due eventi segnava ancora una volta l’abisso che esiste fra la pompa della Chiesa (e in questo caso anche della napoletanità) e la civile sobrietà milanese. Aggiungo – per inciso – che ho trovato eccessivo che il manager di una importante azienda come la Veneranda Fabbrica si sia improvvisato critico e storico della musica e azzardato ad esprimere, in una sede così “alta”, opinioni e giudizi su Beethoven e le sue Sinfonie. Che c’azzeccava?

Detto ciò vogliamo parlare seriamente (almeno noi, nel nostro piccolo) di musica, a cominciare dai due direttori. Se da Mehta, con i suoi ottantuno anni e una carriera svolta tutta ai massimi livelli mondiali, ci saremmo aspettati molto di più di quanto non sia riuscito a dare in questa occasione (una Nona fiacca, un po’ scolastica, poco preparata nei dettagli, ingessata e magniloquente assai più del necessario), dobbiamo rilevare che l’energia e lo stile con cui il sessantaquattrenne Chailly ha affrontato prima Čajkovskij e poi – giusto per farci sentire un po’ italiani – Nino Rota (musiche per i film di Fellini) e Ottorino Respighi (I pini di Roma) sono state veramente ragguardevoli. E l’orchestra della Scala non ha certo sfigurato in confronto a quella del San Carlo, anzi.

Il programma degli scaligeri era forse un po’ sbilanciato: se il Concerto per violino e orchestra in re maggiore, op. 35 di Pëtr Il’ič Čajkovskij è un’opera grandiosa che appartiene a tutto tondo alla grande storia della musica, i brani scelti dal repertorio novecentesco italiano, se pur magnifici, non erano all’altezza del primo brano. Le musiche per  Otto e mezzo e per Amarcord eseguite fuori dal contesto cinematografico perdono molto del loro fascino, e I pini di Roma, seppur famosi e molto eseguiti, non sono fra le opere più suggestive e trascinanti del compositore bolognese e per giunta stonavano con “Le Palme di Milano” (vedi l’articolo di Michela Barzi su ArcipelagoMilano del 28 febbraio 2017) da poco piantate a pochi metri distanza, nella stessa piazza! Dopo Čajkovskij andava messo in tavola un piatto più sostanzioso.

Ciò che ha fatto rassomigliare i due concerti è stata la partecipazione della città; difficile dare i numeri giusti, ma gli oltre tremila che hanno gremito le navate del Duomo e i venticinquemila o più che hanno riempito la Piazza sono numeri che colpiscono. Specialmente se si pensa che la sera della Nona c’era il match fra Juventus e Real Madrid, e la sera del concerto in piazza c’erano oltre trenta gradi e il fastidiosissimo se pur necessario controllo all’ingresso. Ancora una volta dunque ci si chiede se la musica classica sia davvero elitaria come si crede, se non sia da ripensare il modo di offrirla al pubblico, se non sia piuttosto la sala da concerto con le sue regole e i suoi riti a tener lontana la gente. Ma con che cosa sostituirla?

Anche l’acustica, infatti, ha penalizzato i due concerti. È sconcertante che la Curia milanese insista a usare il Duomo come sala da concerto, quando si sa che ha un’acustica a dir poco tremenda. La gloriosa Sinfonia n° 9 in re minore per soli, coro e orchestra, op. 125 di Beethoven era ridotta a un bailamme di suoni, in parte omologati da un direttore poco espressivo – che si limitava a “battere il tempo” – e in parte accavallati gli uni sugli altri in un pastone che li rendeva scarsamente riconoscibili. Ma anche nel concerto all’aperto, nonostante la tecnologia avanzatissima, i risultati non sono stati eccelsi; si sa che l’amplificazione non giova punto alla qualità della musica ma, se ci si deve ricorrere, bisogna fare in modo che sia efficace ed accettabile.

Quanto ai solisti, ottima e molto apprezzata la prestazione del quarantenne violinista danese, Nicolaj Znaider, che ha affrontato Čajkovskij con una tecnica molto raffinata e con la forza e la delicatezza che insieme sono richieste da questo capolavoro. Un’opera che la sera della prima, a Vienna (siamo nel 1881), Eduard Haslink sulla Neue freie Presse stroncò duramente scrivendo che in essa “il violino non suona bensì raglia, stride, ruggisce…”; facendoci così intendere non solo quanto sia difficile eseguirla, ma rivelando anche come i grandi capolavori emergano poco a poco nella comprensione e nel gradimento del pubblico, anche in quello più colto e preparato. Il quale pubblico, domenica sera in piazza del Duomo, è invece giustamente andato in visibilio.

Devo invece confessare che non ho potuto ascoltare in Duomo i cantanti portati da Mehta e dall’Orchestra napoletana (Julianna Di Giacomo soprano, Lilly Jørstad mezzo soprano, Burkhard Fritz tenore e Liang Li basso-baritono) perché dopo i primi due tempi della Sinfonia beethoveniana ero talmente frastornato dai rimbombi amplificati che, insieme a molti altri altrettanto disturbati e irritati, ho dovuto allontanarmi dalla chiesa (fra la sorpresa di quanti, assiepati all’esterno, ci hanno visto uscire a concerto ancora in corso). Che gigantesco spreco, caro Cardinale e caro Francesco!

Paolo Viola

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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