22 marzo 2017

musica –  UNA SETTIMANA FORTUNATA


La nota precedente a questa era intitolata Una settimana sfortunata ma questa volta, al contrario, possiamo dire che sia stata una settimana estremamente fortunata grazie ai concerti che hanno rallegrato due magnifiche serate: Andrea Lucchesini ha eseguito al Conservatorio per la Società del Quartetto le tre ultime Sonate per pianoforte di Schubert mentre alla Scala Myung-Whun Chung ha diretto una indimenticabile e magica Eroica di Beethoven. Due eventi memorabili.

musica11FBLe Sonate D. 958 in do minore, D. 959 in la maggiore e D. 960 in si bemolle maggiore, tutte scritte nell’ultimo anno di vita da uno Schubert già condannato dal suo orribile “mal francese”, sono una trilogia – o un corpus unico – che andrebbe sempre ascoltato per intero ed è invece assai raro sentirle insieme in un concerto; sono due ore filate di musica, comportano una fatica improba e necessitano di una enorme capacità di concentrazione, non solo da parte dell’interprete ma anche da parte del pubblico. Martedì scorso molto intelligentemente Lucchesini, per allentare la tensione, ha fatto precedere ogni Sonata da brevi allocuzioni di Sandro Cappelletto, musicologo ed esegeta schubertiano, aiutandolo ad annunciare ed evidenziare temi e fili conduttori delle composizioni facendone degli esempi al pianoforte. Non solo: la “voce narrante” (così definita nel programma di sala) ha anche introdotto alcune note biografiche e storiche e proposto una inedita osservazione circa la sotterranea relazione che lega Schubert (1797-1828) a Leopardi (1798-1837), due contemporanei che – pur non essendosi mai conosciuti, né aver mai letto o ascoltato l’uno le opere dell’altro – hanno tuttavia in comune non pochi tratti del carattere e una non dissimile visione del mondo.

Delle tre Sonate la seconda e la terza sono le più celebri e le più eseguite, quelle che meglio definiscono la poetica di Schubert, mentre la prima – per certi versi la più strutturata e la più complessa – prende di meno l’ascoltatore essendo molto asciutta e forse anche meno ispirata. L’impeccabile e intensa esecuzione di una dopo l’altra, quasi fossero un’unica sonata articolata in dodici movimenti, è stata un’esperienza rara e preziosa; in questi casi si prova una sorta di gratitudine del tutto particolare nei confronti dell’interprete che si sottopone a tanto sforzo, una gratitudine che Lucchesini ha sicuramente sentito e pienamente meritato. Alla fine pianista e “voce narrante” insieme hanno offerto in bis l’unico melologo scritto da Schubert, Abschied von der Erde (Addio alla terra) D. 829, assai raramente eseguito e di grande delicatezza e suggestione.

Il giorno successivo c’è stata alla Scala la prima replica del concerto che avrebbe dovuto dirigere Georges Prêtre – il direttore francese scomparso novantaduenne il 4 gennaio scorso – e che Myung-Whun Chung, sostituendolo, gli ha dedicato con evidente rispetto e affetto; nel programma ha conservato La Valse di Ravel, prevista da Prêtre, facendola precedere da Ma mère l’Oye, ma ha voluto anche rispettare la grande tradizione scaligera di queste commemorazioni esordendo con l’Eroica – la Sinfonia n. 3 in mi bemolle maggiore op. 55 – e dirigendola come se Beethoven l’avesse scritta per il maestro appena scomparso. L’attenzione del direttore, dell’orchestra e del pubblico si è ovviamente concentrata sulla Marcia funebre del secondo movimento, quella che Daniel Barenboim diresse tre anni fa per Claudio Abbado, a teatro vuoto e a porte aperte, così come per tradizione la Scala ha sempre fatto per i suoi direttori musicali, per esempio per Arturo Toscanini nel 1957, per Victor De Sabata nel 1967, per Gianandrea Gavazzeni nel 1996, per Carlo Maria Giulini nel 2005.

Con questa esecuzione si è replicato il miracolo di ascoltare quel misterioso movimento come se fosse la prima volta, di riscoprirlo e di sentirlo intimamente legato alla scomparsa del maestro, come una preghiera laica che racconta il dolore e la rabbia per la morte, l’ineluttabilità e la ribellione, il vuoto intorno a sé e la speranza di poterlo colmare.

Con la lettura del direttore coreano – in cui si sentiva molto la lezione appresa da Giulini di cui è stato allievo ai tempi della Filarmonica di Los Angeles – si è avuta la sensazione più vivace che mai che la terza Sinfonia di Beethoven abbia storicamente inaugurato la stagione del moderno; la composizione è del 1803, il mondo stava cambiando tumultuosamente, era l’anno in cui l’intellighenzia europea era assorbita dalle discussioni intorno al codice civile napoleonico che affermava l’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge e aboliva le ultime tracce del feudalismo; si respiravano ovunque quelle nuove idee di libertà e di progresso che Beethoven appena trentaduenne aveva incise nel proprio DNA. Mozart era mancato una decina di anni prima, dopo aver lottato (anche lui trentenne) contro la durissima censura dell’Imperatore per far rappresentare le rivoluzionarie Nozze di Figaro; Haydn era un grande vecchio che aveva già compiuto i settant’anni, mentre Schubert ne compiva solo sei. Non è difficile immaginare come il momento fosse propizio perché Beethoven spiccasse il volo.

L’Orchestra Filarmonica della Scala – la spalla era la perfetta, Laura Marzadori – sembrava pienamente consapevole della eccezionalità dell’evento e ha seguito Chung con particolare intensità e lucidità. L’esecuzione dei due lavori di Ravel, dopo una così forte emozione, è sembrata quasi leggera, volatile; Ma mère l’Oye e La Valse non hanno potuto reggere il confronto con il capolavoro beethoveniano, forse bisognava invertire l’ordine del programma ed eseguirle prima dell’Eroica. Ma questo è cercare il pel nell’uovo, perché non bisognerebbe mai dimenticare il grande privilegio che abbiamo a Milano di poter ascoltare musica di così alta qualità e poterci considerare, almeno per questo, fra i più fortunati abitanti del pianeta.

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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