10 gennaio 2017

PERIFERIE: NON È MATERIA DA ARCHITETTI*

Il patrimonio immobiliare e il mancato ammortamento


Che nelle periferie italiane ci sia bisogno di rammendi è un’affermazione di cui è difficile dubitare. Le sfilacciature purtroppo sono un’infinità e, come per i soprabiti troppo sgualciti, può venir voglia di buttare tutto. Si può cominciare con qualche buona pratica, sperando che abbia seguito, ma, a far su e giù per lo Stivale, Milano, Roma, Napoli, Palermo, hai voglia a dare il buon esempio.

03de-gaspari_01C’è però un punto, di là dalle pratiche sartoriali, che andrebbe affrontato quando si parla di periferie. Le case sono considerate beni capitali, per quanto un po’ speciali, e come tutti i beni capitali dovrebbero richiedere quote di ammortamento per il loro mantenimento o, in ultima analisi, per la loro sostituzione quando diverranno inutilizzabili. In un certo senso si può dire che questo avvenga quotidianamente laddove il buon amministratore del condominio, la tipologia abitativa più diffusa nella periferia, accantona risorse per l’ordinaria manutenzione ed effettua prelievi straordinari in caso di necessità. Ma è proprio qui che la differenza tra un bene capitale vero e proprio, ad esempio un laminatoio, e un vecchio fabbricato abitato da immigrati oberati da un mutuo trentennale si fa critica.

Keynes affronta il tema degli ammortamenti nell’ottavo capitolo della Teoria Generale, dove tratta della propensione al consumo della popolazione, segnalando che se gli operatori economici mostrano una prudenza eccessiva nell’accantonamento per il mantenimento degli impianti e delle scorte, c’è il rischio che ne vengano penalizzati il consumo e l’occupazione in quanto l’eccesso di prudenza comprime necessariamente il livello dell’investimento. L’inconveniente non si verifica laddove gli impianti e le scorte vengano effettivamente mantenuti al loro livello di efficienza, ma “quando gli accantonamenti finanziari superano la spesa effettiva per i mantenimenti correnti, non sempre se ne valutano i risultati pratici quanto agli effetti sull’occupazione. Infatti questa eccedenza non origina direttamente investimenti correnti, né è disponibile per venire spesa in consumi”.

L’esempio che sceglie Keynes forse non è casuale. “Si consideri una casa che continua a essere abitabile finché viene demolita o abbandonata. Se il suo valore viene depennato di una certa somma tratta dal fitto annuale pagato dagli inquilini, somma che il proprietario non spende in manutenzioni né considera come reddito netto disponibile per il consumo, questo accantonamento [ … ] costituisce un ostacolo all’occupazione del lavoro per l’intera vita della casa, finché viene improvvisamente utilizzato in blocco quando la casa deve venire ricostruita.” (1)

La preoccupazione di Keynes riguarda il mancato sincronismo tra risparmio e investimento. Infatti, per quanto il rapporto tra questi fattori sia necessariamente di assoluta identità dal momento che “nessuno può risparmiare senza acquisire un’attività, sia questa contante o credito o beni capitali” (2), è tuttavia possibile, come nel caso precedente, che i tempi del risparmio siano sfasati rispetto all’investimento.

Sta di fatto che da noi c’è sofferenza sia dal lato degli accantonamenti che degli investimenti. Keynes, che pure conosceva la bolla dei terreni della Florida, non pensa a una società in cui la maggior parte della popolazione viva in case di proprietà e nemmeno può immaginare una diffusione del credito ipotecario paragonabile alla nostra. L’urbanistica e l’architettura sono lontane dal poter offrire una soluzione ragionevole al problema delle periferie in assenza di una soluzione plausibile al problema del degrado abitativo.

Pur restando l’analisi keynesiana di grande utilità, perché rileva che la qualità, la condizione e il regime proprietario del patrimonio abitativo sono temi cruciali per l’economia di un paese, oggi siamo in una situazione differente da quella implicitamente delineata da Keynes. Dal momento che nelle nostre periferie la proprietà della casa è per lo più di tipo ipotecario ed è diffusa in maniera capillare, la compressione dei consumi viene esercitata su una moltitudine di individui che, dato l’alto livello di quella che impropriamente viene considerata rendita urbana (3), sono costretti a risparmiare (4) parecchio solo per conservare lo status di proprietario. Dal momento che lo status può essere mantenuto solo a spese del consumo famigliare, si ricade ancora nella fattispecie delineata da Keynes sebbene attraverso un percorso differente. Ma c’è di più perché, nel caso di Keynes, l’eccesso di prudenza nell’accantonamento può sì avere effetti preoccupanti, ma sempre di natura temporanea e quindi ciclica, mentre nel caso delle nostre periferie l’effetto è strutturale e duraturo, sebbene più diluito nel tempo.

Lo stato di degrado in cui versano molte periferie delle città italiane si deve dunque addebitare a un particolare processo di natura economica che da una parte induce a ritenere conveniente considerare le case come beni capitali, ma dall’altra le tratta come prodotti di consumo, legandone la proprietà con tutte le relative incombenze a coloro che non sono in grado di assicurarne la normale sopravvivenza attraverso la procedura dell’accantonamento, usuale per tutti i beni capitali.

Rispetto all’analisi keynesiana del rapporto tra beni capitali, consumo e investimento la nostra realtà mostra quindi una seconda variabile di un certo rilievo. Mentre Keynes punta il faro sull’eccesso di prudenza, cioè su risorse effettivamente esistenti che vengono sottratte all’investimento, alla libera circolazione e in ultima analisi al consumo e all’occupazione, noi ci troviamo in una situazione in cui le risorse per la manutenzione del bene capitale pare si siano volatilizzate e la compressione, fintanto che è possibile, avviene direttamente sul consumo.

Di fatto quel bene capitale chiamato casa in molti casi è come se non fosse davvero tale per la buona ragione che non c’è nessuno davvero interessato, o comunque in grado, di assicurarne nel tempo il mantenimento e la funzione sociale. Com’è possibile? È possibile, perché in realtà le risorse esistono, ma non nella forma degli accantonamenti, o del fondo di riserva, o di qualsiasi altra fattispecie si voglia, ma evaporano in un massiccio trasferimento di valore dai consumatori ai rentiers mediato dal sistema finanziario.

Laddove Keynes intravvedeva un eccesso di prudenza abbiamo un’assenza totale di previsione, dal momento che non esiste nessuna forma di responsabilità complessiva sui beni, col risultato paradossale che ne vengono penalizzati sia la propensione al risparmio che la propensione al consumo, e quindi all’investimento. Nonché, ovviamente, la prudenza conservativa delle abitazioni e la coesione sociale.

 

Mario De Gaspari

 

 

* Questo articolo si basa su un capitolo del libro La moneta d’argilla di prossima uscita.

1) J. M. Keynes, Teoria generale dell’occupazione, dell’interesse e della moneta, Utet, Torino, 1971, pag. 85.

2) Ibidem, pag. 269. Secondo Keynes, dal punto di vista del singolo individuo anche la semplice decisione di detenere moneta è da considerarsi scelta di investimento.

3) Spesso gli urbanisti attribuiscono all’eccessivo livello raggiunto dalla rendita urbana la responsabilità del malessere accumulato nelle città italiane, in particolare nelle periferie. Questa interpretazione trascura il fatto che la rendita urbana in senso tradizionale ormai non esiste più, almeno da qualche decina d’anni. Di rendita si potrebbe ancora parlare in maniera marginale in riferimento a quegli istituti, banche, compagnie assicuratrici, enti di beneficenza, che posseggono un certo patrimonio immobiliare affidato in locazione, non certo riguardo a società immobiliari che costruiscono unicamente per vendere, incassare e tornare a costruire. È vero che, in senso lato, si tratta pur sempre di rendita, di rendita capitalizzata, ma quello che si vuole sottolineare è che la capitalizzazione della rendita è ormai la norma e che proprio questo ne aggrava radicalmente la natura e gli effetti.

4) Ovviamente le quote di reddito destinate al rimborso dei mutui non sono riconducibili alla voce risparmio/investimento, ma piuttosto andrebbero semplicemente considerate risorse indebitamente sottratte al consumo e volatilizzate nella rendita. Su questo punto andrebbe svolta una rilettura critica della famosa Nota aggiuntiva di Ugo La Malfa del 22 maggio 1962.

 



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