10 gennaio 2017

musica – UN TROVATORE CAGLIARITANO


Negli ultimi giorni dell’anno passato il Teatro Lirico di Cagliari ha concluso la stagione con un imponente Trovatore verdiano diretto da un milanese che – confesso – è stato per me una grande e magnifica sorpresa. Di Giampaolo Bisanti sapevo assai poco, che è il primo di 11 figli di un grande appassionato di musica, che si è diplomato al Conservatorio milanese, che ha diretto un Otello agli Arcimboldi nel novembre di tre anni fa e un concerto all’Auditorium con l’orchestra Verdi.

musica01fbNon è dato di conoscerne l’età ma pare che da bambino abbia vinto uno Zecchino d’oro o d’argento ed era il 1976. Sappiamo però che ha una magnifica carriera alle spalle avendo diretto non solo nei più grandi teatri italiani (Bologna, Firenze, Genova, Torino, Trieste, Venezia per citarne qualcuno) ma anche in qualche importante istituzione europea come il Semperoper di Dresda, la Deutsche Oper di Berlino, il Liceu di Barcellona, l’Opernhaus di Zurigo. Due mesi fa è stato nominato Direttore Stabile della Fondazione Petruzzelli di Bari.

Felicissima sorpresa dunque, ma la felicità vera arriva con la musica di Verdi. Tutti sanno quanto “Il Trovatore” sia impegnativo, sia per i solisti che per l’orchestra e il coro, ma aggiungo che ancor più difficili sono forse la regia e le scene, se non altro per la difficoltà di districarsi nel complicato racconto di Gutiérrez che il libretto di Salvatore Cammarano non aiuta affatto a decifrare, anzi. La musica è sublime e, a dispetto del fosco e tragico racconto, scorre luminosa grazie alla immensa ricchezza dei temi e al loro succedersi in un flusso continuo e avvolgente; è una musica per certi versi poco popolare, almeno rispetto a molte opere coetanee, perché non isola temi destinati a diventare autonomamente celebri, eppure è ed è stata amata al punto da diventare, almeno nella seconda metà dell’ottocento, la più eseguita fra le opere di Verdi (è stata data per la prima volta a Roma nel gennaio del 1853).

Bisanti ne ha dato una lettura lucida, essenziale, tesa, molto attenta al palcoscenico senza farsene condizionare, conservando la fluidità e la godibilità del grande affresco lirico con cui Verdi accompagna i sentimenti dei protagonisti più che i fatti e gli eventi. Il coro, istruito da Gaetano Mastroiaco, e l’orchestra del Teatro Lirico hanno dato il massimo per seguire il concertatore e direttore e gli hanno consentito di esprimere tutte le tensioni dell’opera e di scavarne i significati più nascosti. Un grande lavoro di analisi e di sintesi che si è riverberato nel risultato finale tenendo il pubblico con il fiato sospeso dall’inizio alla fine e dimostrando che le compagini cagliaritane sono all’altezza degli altri grandi complessi lirici italiani.

Non dirò dei cantanti, che mi sono parsi un po’ meno adeguati a tanto impegno, con l’eccezione del polacco Mikołaj Zalasiński che grazie alla possente e insieme raffinata voce baritonale ha dato corpo, in modo esemplare, alla furia del Conte di Luna.

Lo spettacolo è invece precipitato nell’insipienza a causa di un regista – scenografo – costumista -coreografo e persino autore delle luci, abituato a essere fischiato quasi ovunque abbia lavorato (internet è implacabile, racconta tutto); un trentino dalla chioma fluente, che nasconde l’età, non sa lavorare in équipe tanto da pretendere di fare tutto lui “per dare all’interpretazione operistica la rigorosa unità estetica e concettuale di un teatro fondato sulla totalità delle arti e rivolto a una percezione integrale, plastica e ricca di visioni” (così nel programma di sala!). Non si capisce perché Mauro Meli lo abbia chiamato.

A dir la verità in questo caso non vi sono state proteste clamorose, ma il pubblico era palesemente molto perplesso e non ha gradito né quell’unica scena buia, fumosa, sempre uguale per tutti e quattro gli atti (nonostante il libretto dia indicazioni molto diverse) né i costumi privi di fantasia e di riconoscibilità (chi erano gli zingari, e chi gli armigeri del Conte?) e neppure le luci che disegnavano atmosfere allucinate e prive di immaginazione e di poesia. La scena consisteva in una enorme sfera bianca, dal diametro di circa sei metri, butterata come da crateri lunari, e da una grande mano scura – disegnata a imitazione di quella che Cattelan ha posto in piazza della Borsa a Milano, ma con tutte e cinque le dita alzate – alta una decina di metri, incomprensibilmente trafitta sul palmo da barbariche lance. Nient’altro. Il piano d’appoggio ruotava a ogni cambiamento di scena (si fa per dire) sicché sfera e mano si trovavano alternativamente in primo piano o sullo sfondo, ovvero una a destra e l’altra a sinistra o viceversa. Una noia mortale.

Come sempre ci si chiede quanto, come e quando un regista – magari con la presunzione di non sconvolgerne il contenuto ma al contrario di svelarne ed esaltarne i significati più reconditi – può innovare l’opera lirica, non rispettare le indicazioni dell’autore, creare situazioni diverse da quelle immaginate originariamente, spostare gli eventi in luoghi e in tempi diversi da quelli in cui originariamente erano stati collocati.

Molto si è detto e scritto sull’argomento ma io credo che si diano due soli casi. O si presenta una parafrasi dell’opera, riscrivendola daccapo, ricalcandone i caratteri principali (temi, vicende, situazioni) ma proponendo un lavoro sostanzialmente nuovo, firmandolo e assumendosene per intero la responsabilità, con la speranza o la pretesa che risulti più interessante di quello da cui trae origine (cosa che peraltro avviene frequentemente nel teatro, vedi tutti gli Amleti “da Shakespeare” che ci sono stato proposti). Oppure la si rispetta in tutte le sue componenti, scene e regia comprese, senza modifiche sostanziali, soprattutto senza aggiungere o togliere “senso” al testo dell’autore. Tertium non datur. La regia di un’opera, se la si presenta come tale, nel nome del suo autore, deve attenersi strettamente al suo significato profondo, non può e non deve stravolgerlo; si può cambiarne il contesto, certo, ma con estrema sobrietà e attenzione, solo per dimostrare l’attualità di quel significato, e dunque limitandosi ad adattamenti minimi senza sovrapporvi narcisistiche divagazioni.

Riusciremo mai a risollevarci dalla nostalgia di Strehler?

Paolo Viola

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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