14 dicembre 2016

EDILIZIA, BANCHE E IMPRESE: L’ATTUALITÀ DI CLAUDIO DE ALBERTIS

Considerazioni a partire da un'intervista del 2013


A ricordo di Claudio De Albertis, Luca Beltrami Gadola ha ripubblicato a distanza di tre anni un’interessante intervista sulla crisi edilizia che egli aveva rilasciato ad ArcipelagoMilano. Ascoltandola oggi se ne coglie la stretta attualità e al tempo stesso l’esigenza di ricollocarne alcune sottolineature alla luce della situazione presente. Lo farò per punti, riprendendo gli aspetti dal mio punto di vista più significativi.

02degasperi41fbDe Albertis ricorda che il settore edilizio, con l’indotto, contribuisce per un 18/20% al Pil del Paese, sottolineandone l’indiscutibile rilievo a riprova dell’esigenza di politiche adeguate a beneficio dell’intera economia. Un occasional papers della Banca d’Italia (1) pubblicato nel 2015 stima addirittura che l’intera filiera dia un apporto anche superiore al 20%, così diviso: 50% imprese di costruzione, 40% servizi immobiliari, 10% indotto. Questo semplice dato, secondo cui l’indotto, la parte del settore che ha rilievo anche per l’export (legno, piastrelle, vetro, ecc.) riguarda solo il 10% di un 20%, dovrebbe far sorgere dubbi in coloro che insistono in maniera acritica nel considerare il settore immobiliare volano dell’economia.

È vero che il calo degli investimenti negli anni della crisi è dovuto per l’80% al crollo degli investimenti in edilizia, ma è impropria l’inferenza secondo cui il rilancio del Paese non può che realizzarsi per quella via. Esattamente la strada opposta stanno infatti seguendo altri paesi che stanno un po’ meglio, come la Spagna, avendo deciso, dopo il 2008, di recuperare i punti di Pil persi nell’immobiliare in settori considerati più competitivi. Di questo pare cosciente lo stesso De Albertis quando nell’intervista esprime l’auspicio che gli operatori del settore facciano più autocritica, rivedendo il profilo delle loro imprese e modificando prodotti e processi alla luce delle profonde criticità che presenta il territorio nazionale.

De Albertis evidenzia il crollo delle compravendite di case verso gli immigrati, che fino al deflagrare della crisi contribuivano con una quota del 16/18% al mercato, rappresentando praticamente l’unico vero bacino di ampliamento della domanda netta. Questo dato è di grande rilevanza e andrebbe analizzato in tutti i suoi risvolti, perché è accertato che la domanda di case da parte di questo 16/18% ha esercitato una pressione al rialzo sui prezzi pari a quella attribuibile alla popolazione nativa (82/84%). In pratica agli immigrati sono state praticate condizioni “differenziate”, utilizzando questo segmento del mercato immobiliare per far crescere artatamente tutti i prezzi delle case (2). La revisione del prodotto di cui parla De Albertis deve necessariamente fare i conti con questo dato.

Il punto meno condivisibile dell’intervista, ma non si dimentichi che siamo nel 2013, è quello in cui De Albertis accenna a un intervento sulla domanda attraverso qualche dispositivo creditizio, in pratica operando sull’entità della rata dei mutui, in modo da favorire le possibilità di finanziamento da parte degli immigrati e, in generale, del segmento basso del mercato. Ma proprio questi mutui, ovvero i nostri subprime, sono stati all’origine del crollo della domanda di case dopo il 2008. E questo lo riconosce lo stesso De Albertis, pur tuttavia riproponendo, sembra di capire, la medesima ricetta. Questi mutui si basavano, come quelli americani, sul contenimento della rata e il contestuale allungamento del periodo di rimborso, tanto che i mutui trentennali sono diventati la normalità (3).

Giova ricordare che su questo sono successivamente intervenuti in maniera precauzionale la Banca d’Italia, rendendo più stringenti le condizioni per la concessione dei mutui, e l’Unione Europea, attraverso la direttiva 17 del 2014, a tutela dei consumatori, sconsigliando decisamente la praticabilità di questa strada.

De Albertis si sofferma sulle difficoltà competitive delle imprese nazionali, soprattutto quelle sane che operano correttamente. Su questo non si può non convenire, ed è un peccato che l’argomento sia solo accennato, senza però dimenticare le responsabilità complessive addebitabili al settore immobiliare nel suo insieme, e in particolare proprio a quelle imprese di cui De Albertis stigmatizza il comportamento, soprattutto riguardo alla crisi bancaria in corso, di cui Montepaschi è la punta dell’iceberg. Le imprese di costruzione sono caratterizzate da un livello di indebitamento particolarmente elevato, ma è solo dal 2013 che le statistiche della Banca d’Italia su crediti deteriorati e sofferenze riportano il dato parziale riferito al settore immobiliare (4), rendendo oggi possibile un’analisi più puntuale.

Ora sappiamo che il 40% dei 200 miliardi di sofferenze bancarie proviene proprio dal settore immobiliare e delle costruzioni e che in questa particolare classifica l’immobiliare ha ormai distanziato la manifattura. Del resto l’intera catena, che abbiamo detto contribuire alla produzione per circa il 20%, assorbe più del 34% dei finanziamenti al settore privato.

La lunga crisi, iniziata prima del 2008, ha avuto dunque ripercussioni molto negative non solo sulle imprese della filiera immobiliare ma anche sulle banche che le hanno finanziate ed è via via cresciuta la quota di imprese che faticano a rimborsare i prestiti, in particolare proprio tra quelle di maggiori dimensioni e tra quelle che utilizzano in maniera più spinta la leva finanziaria. A far soffrire i cassieri non sono tanto le famiglie, nemmeno quelle finite sott’acqua, alle quali rimane da pagare una quota di mutuo superiore all’intero valore dell’alloggio, ma prevalentemente le imprese di costruzione e, tra queste, sono soprattutto quelle di dimensioni maggiori a creare voragini nei bilanci degli istituti di credito (5).

Che quasi la metà del credito immobiliare provenisse, già nel 2007, dagli istituti dei primi cinque gruppi bancari, è un buon indizio del carattere strutturale dell’intreccio tra il settore e l’alta finanza, senza con questo doversi ritenere che le banche di territorio siano esenti da rischio, com’è del resto emerso a fine 2015 in occasione della risoluzione delle quattro banche (6) del centro Italia. Esattamente come nel corso della crisi di fine ottocento, invece che arrendersi alla tendenza deflazionistica tutto il sistema ha preferito scommettere su una ripresa di cui, dopo otto anni, non c’è ancora alcun indizio (7).

L’intervista è breve e purtroppo i molti temi toccati da De Albertis non possono trovarvi un approfondito svolgimento. Resta tuttavia un documento di forte attualità soprattutto alla luce di ciò che è accaduto nel sistema creditizio dopo il 2013, rendendo drammatica una situazione che già allora appariva molto difficile.

Mario De Gaspari

 

1) Cristina Fabrizi, Raffaella Pico, Luca Casolaro, Mariano Graziano, Elisabetta Manzoli, Sonia Soncin, Luciano Esposito, Giuseppe Saporito, Tiziana Sodano, Mercato immobiliare, imprese della filiera e credito: una valutazione degli effetti della lunga recessione, Occasional Papers, Questioni di Economia e Finanza, Banca d’Italia, marzo 2015.
2) Il Sole 24 Ore del 15 dicembre 2009, a commento di un rapporto di Banca d’Italia, sosteneva che le compravendite verso gli immigrati hanno contribuito a incrementare i prezzi delle case del 2%, generando “una crescita del valore della ricchezza detenuta dalle famiglie italiane di circa 60 miliardi” e che “la richiesta di case da parte degli immigrati ha esercitato una pressione al rialzo delle quotazioni immobiliari di entità simile a quella attribuibile alla domanda da parte dei nativi”.
3) Questo meccanismo non è entrato in crisi per cause naturali, ma semplicemente perché il sopraggiungere della crisi ha deteriorato le condizioni lavorative e salariali degli immigrati, facendo venir meno le condizioni che lo consentivano. Da un punto di vista macroeconomico si deve anche tenere presente che il massiccio e crescente travaso di risorse dai redditi bassi alla rendita immobiliare è tra le cause principali del crollo dei consumi e della domanda interna.
4) Nella categoria crediti deteriorati sono compresi tutti i prestiti difficilmente esigibili. In Italia fino al 2015 i crediti deteriorati venivano a loro volta classificati in sofferenze, incagli, crediti ristrutturati, scaduti/sconfinamenti. Dal 2015 è stata introdotta per uniformità con i paesi dell’UE una nuova classificazione: sofferenze, inadempienze probabili, scaduti/sconfinamenti.
5) A prescindere dal settore, le sofferenze ammontano a oltre 201 miliardi. 141 miliardi sono sofferenze dovute a prestiti superiori ai 500.000 euro (grandi prestiti), mentre meno di 60 miliardi riguardano prestiti inferiori ai 500.000 euro (piccoli prestiti). I creditori responsabili delle sofferenze sono 1.240.410, di cui 58.581 grandi creditori, 1.181.829 piccoli creditori. Centro Studi di Unimpresa su dati Banca d’Italia (aggiornati a novembre 2015).
6) Cariferrara, Etruria, Carichieti, Banca Marca. In particolare il caso di Banca Etruria è ampiamente noto.
7) Questa chiave di lettura consente anche di dar ragione del modo in cui il governo ha affrontato l’intera questione del recepimento della direttiva europea sulla regolamentazione delle crisi bancarie, quella che prevede l’ormai noto bail in, il salvataggio delle banche col coinvolgimento di creditori e correntisti. Infatti i termini per il recepimento del provvedimento scadevano col 2014 e l’Italia dall’inizio del 2015 è entrata in procedura d’infrazione, andando affannosamente in approvazione solo il 16 novembre dello stesso anno. Non è stato per cattiva volontà o per dimenticanza che si è tardato così tanto a recepire una norma la cui approvazione era inevitabile, alla cui stesura aveva contribuito l’Italia stessa e senza la quale il nostro Paese sarebbe precipitato in un pericoloso vuoto legislativo a partire dal primo giorno del 2016. Si è cercata disperatamente una via d’uscita che evitasse, grazie forse a qualche artificio di ingegneria finanziaria, di squadernare la realtà di un sistema bancario pesantemente compromesso dalle sofferenze e soprattutto dalle sofferenze in un settore considerato particolarmente critico. Forse è stata anche coltivata l’idea di anticipare lo scontro con Bruxelles, sollevando polvere che impedisse di veder chiaro. O forse entrambe le cose.

 



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