7 dicembre 2016

musica – SCHUMANN E MOZART


Mentre la settimana scorsa scrivevo come la musica da camera andrebbe ascoltata in ambienti meno grandi di quelli che usano oggi, due magnifici concerti hanno palpabilmente dimostrato l’assunto: alla Scala il recital di Matthias Goerne e Christopher Eschenbach che hanno eseguito tre cicli di Lieder di Schumann, e nella Sala Verdi del Conservatorio l’ultimo concerto dell’integrale dei Quartetti d’archi di Mozart per la Società del Quartetto. Due concerti di grandissimo interesse soprattutto per chi – come me – non ama i programmi omnibus che inanellano musiche di ogni epoca e di tanti autori diversi senza un filo conduttore, in genere pensati più per far mostra delle doti tecniche e interpretative degli esecutori piuttosto che per offrire al pubblico un godimento più raffinato e incisivo.

musica40fbGoerne è un celebre baritono – insieme al tenore Bostridge è fra i migliori liederisti viventi, e ha anche il fascino di essere nato e cresciuto a Weimar (chi l’ha visitata ne capisce la ragione) – ed Eschenbach è un ottimo direttore d’orchestra che poche settimane fa era sul podio della Scala per dirigere “The Turn of the Screw” di Benjamin Britten e che si diletta a fare il pianista accompagnatore, un’arte assai difficile nella quale eccelle. Sono due grandi musicisti che da anni lavorano insieme per affinare l’arte del Lied (hanno inciso molti Lieder di Schubert, Brahms e Schumann), e il 28 novembre alla Scala hanno eseguito una trentina di Lieder di Schumann e precisamente gli otto del ciclo “Frauenliebe und – leben(Amore e vita di donna) opera 42, i sedici del “Dichterliebe” (Amore di poeta) opera 48, e i nove del “Liederkreis” (che non si può tradurre, letteralmente significa Cerchio o circolo di Lieder) opera 24.

Purtroppo la Scala era mezza vuota, è risaputo che i milanesi non sono “liederisti” come i tedeschi, ma chi c’era è andato in visibilio per la morbida voce del baritono e per la raffinatezza del sostegno pianistico. Così raffinato, Eschenbach, che per non sovrastare i “piano” della voce privilegiava a tal punto i “pianissimo” del suo strumento da mettere a dura prova l’udito degli ascoltatori; i quali, oltretutto, in questo genere di concerti hanno un’età media rispettabile. La serata si è presentata dunque come una ragione in più per vagheggiare un ambiente raccolto, un’acustica adatta e un pubblico meno numeroso. Ho avuto anche una curiosa sensazione: forse proprio per evitare che l’esile canto si disperdesse nel grande teatro, ma non volendo alzarne i toni, Goerne ha caricato l’interpretazione di una non necessaria teatralità drammatizzando i testi poetici di Von Chamisso e soprattutto quelli di Heine i quali, a mio avviso, reclamavano una diversa delicatezza e lievità.

Di tutt’altro genere invece il concerto al Conservatorio, con gli ultimi quattro Quartetti di Mozart: il cosiddetto “Quartetto Hoffmeister” K. 499 in re maggiore e i tre chiamati “Prussiani” (il K. 575 anch’esso in re maggiore, il K. 589 in si bemolle maggiore e il K. 590 in fa minore).

Il Quartetto K. 499 è forse il meno interessante dei Quartetti di Mozart; il 1786, l’anno della sua composizione, è stato uno dei più felici per la produzione mozartiana ma l’autore, trentenne, era molto impegnato sia nell’attività di pianista (nei precedenti cinque anni, fra il 1781 e il 1786, Mozart aveva composto ben quattordici concerti per pianoforte e orchestra che eseguì e diresse personalmente!), sia nella presentazione al pubblico delle Nozze di Figaro (K. 492), l’opera che lo privò del favore della nobiltà e dell’alta borghesia viennese. L’Hoffmeister gli fu commissionato proprio in quel periodo dall’editore da cui prese il nome e Mozart, probabilmente poco “sul pezzo” non potette esimersi dallo scriverlo.

I tre ultimi Quartetti – “prussiani” perché commissionatigli dal Re Federico Guglielmo II – sono del 1789 e del 1790 e risentono molto della contemporanea stesura del “Così fan tutte” (che porta il numero di catalogo K. 588); qui Mozart raggiunge le massime vette della sua musica da camera, specialmente con il primo e l’ultimo della triade. C’è in questi Quartetti un intreccio complesso di diversi sentimenti: l’orgoglio di scrivere per il Re, l’analogia inquietante con l’Offerta Musicale di Bach (dedicata in analoghe condizioni al precedente Re Federico il Grande) e la delusione di aver ottenuto ben pochi risultati economici dal faticoso e lungo viaggio (due mesi) che da Vienna l’aveva portato a Berlino attraverso Praga, Dresda e Potsdam in andata, e Lipsia e Weimar al ritorno. Forse vi si trova anche una certo istinto di emulazione nei confronti di Haydn, che l’anno precedente aveva avuto dallo stesso Re l’incarico di scrivere sei Quartetti, chiamati anch’essi “Prussiani”. In realtà nel suo viaggio anche Mozart ottenne da Federico Guglielmo l’incarico di scriverne sei ma non si è mai capito perché si sia fermato ai primi tre.

La maratona dei ventitré Quartetti mozartiani suddivisi in 5 concerti è stata una delle esperienze musicali più positive e attraenti degli ultimi anni e non possiamo che essere entusiasticamente grati alla Società del Quartetto ed al Quartetto di Cremona per averli proposti ed eseguiti. Tuttavia anche in questo caso qualche ombra è comparsa (sarebbe stato inverosimile il contrario): nell’ultima serata si è sentita una certa stanchezza che non saprei se mettere più in capo agli esecutori o al pubblico. Da parte degli interpreti – peraltro più che perfetti – ho avuto l’impressione che l’enorme impegno li abbia un po’ sovrastati; si percepiva il timore che lo sforzo di farsi ascoltare da tutti potesse snaturare la qualità del suono e ho trovato che tutti i movimenti finali dei singoli Quartetti siano stati inconsapevolmente accelerati (gli Allegro diventati Presto) come per non volere indugiare troppo su ciascuna opera, come se la logica della sequenza avesse preso il sopravvento sui caratteri della specificità.

Forse anche il pubblico era troppo numeroso per ascoltare una musica delicata, essenziale, intima (l’Andante del K. 589, dolente e sereno insieme!) come quella dei quattro strumenti ad arco. La dimostrazione, se così si può dire, la si è avuta quando il Quartetto di Cremona ha offerto in bis una trascrizione per quartetto d’archi (mancavano l’organo e il coro) del celeberrimo mottetto “Ave Verum Corpus” K. 618, scritto da Mozart durante la sua ultima estate nell’agosto del 1791 per ringraziare il Parroco di Baden di qualche ripetizione data al figlio Carl. Questa musica, strutturalmente così diversa dalla forma del quartetto, ha avuto l’effetto di una folata di aria fresca, ha dato la sensazione di essere usciti dalla gabbia del ciclo, si è sentita come una sorta di generale sollievo.

Paolo Viola

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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