23 novembre 2016

musica – RACHMANINOFF


Autore amato e trascurato, ma anche un po’ misconosciuto, Sergej Rachmaninoff ha una storia particolare che si incastra malamente nella grande scuola russa, non solo perché fu più pianista e direttore d’orchestra che compositore, ma soprattutto perché – nato nel 1873 nella Russia profonda di Novgorod, e vissuto fino a quarantaquattro anni fra San Pietroburgo e Mosca, dove ha studiato ed è diventato direttore prima del Bolscioi e poi della Filarmonica – nel 1917 diventa americano e lo resterà per i ventisei anni che ancora vivrà.

musica38fbAllo scoppiare della rivoluzione bolscevica aveva attraversato precipitosamente e fortunosamente il confine con la Finlandia, portando con sé moglie e figlie, e da allora in patria non torna più fino alla morte che lo coglie a Beverly Hills in California, nel pieno della seconda guerra mondiale (1943).

Discendeva da una famiglia nobile, andata al meno come si dice a Milano, ed era perfettamente integrato nella Russia imperiale; quella di abbandonare i patri Lari fu dunque una scelta politica e di sopravvivenza, assai diversa da quella che avrebbe fatto più avanti Shostakovich (che nel 1917 aveva appena 11 anni) che praticamente insieme alla rivoluzione è cresciuto con tutti i tormenti e i compromessi che conosciamo. La “grande madre russa” aveva però formato profondamente Rachmaninoff che, prima di lasciarla, aveva dovuto piangere due morti dolorose – quella improvvisa di Pyotr Ilyich Tchaikovsky, amatissimo maestro di trentatré anni più grande di lui, e quella di Aleksander Skrjabin, grandissimo amico e quasi coetaneo – e aveva visitato due volte Lev Tolstoj, nella famosa residenza di Jasnaja Polijana, sperando di conquistarne l’amicizia.

Lasciata presto la Scandinavia arriva a New York dove, per vivere decorosamente, deve sobbarcarsi una faticosa e impegnativa carriera di pianista (pare fosse diabolicamente bravo e si racconta della straordinaria performance di 40 concerti in soli quattro mesi!) e quindi trascurare la composizione. Negli anni americani scrive infatti solo sei lavori fra cui – oltre al capolavoro “Rapsodia su un tema di Paganini, opera 43” del 1934, consentitogli dalla pace che regnava nella villa che aveva sul lago di Lucerna – questo Quarto e ultimo “Concerto per pianoforte e orchestra opera 40” in sol minore eseguito la settimana scorsa all’Auditorium dall’Orchestra Verdi con il pianista Boris Petrushansky (russo anche lui ma abitante da molti anni in Italia, non ancora settantenne, noto per essere uno specialista di Shostakovich) e con la direzione un giovane uzbeko non ancora trentenne di nome Aziz Shokhakimov.

Dirò subito che l’esecuzione – sia per la difficile parte per pianoforte che per la complessa realizzazione del piano orchestrale – è stata di ottima qualità; i due musicisti si intendevano perfettamente e tutte le asperità della partitura sono state affrontate e risolte con grande perizia e scioltezza. Il Quarto è un concerto che, a differenza dei tre precedenti dello stesso autore, si ascolta raramente, forse anche perché più interessante che affascinante, meno coinvolgente e privo dei grandi temi cantabili che ci si aspetta da un musicista di cui si dice essere stato l’ultimo dei romantici. Non saprei dire se si può definirla musica più russa o americana, forse ha le radici in un ricercato e sofisticato connubio fra le due culture.

Alcune reminiscenze di Skrjabin – che di tutti i russi vissuti a cavallo del secolo è stato sicuramente fra quelli che più hanno inseguito la modernità occidentale – e le frequenti allusioni a Stravinskij e a Gershwin, creano una curiosa e intrigante ambiguità: si pensi peraltro che Petroushka e Le Sacre du Printemps erano state scritte da Stravinskij solo dieci anni prima, nell’11 e nel ‘13 quando ancora non si era trasferito negli States, mentre la “Rhapsody in Blue” è del ‘24, e il “Concerto in Fa” del ’25. Ed è curioso osservare che solo pochi anni dopo Gershwin, anch’egli di origini russe e di oltre vent’anni più giovane di lui, morirà a Beverly Hills a poche centinaia di metri dalla casa di Rachmaninoff.

Un concerto, il Quarto, che non smentisce Massimo Mila il quale, nella sua celeberrima “Breve storia della musica”, liquida Rachmaninoff con tre sole parole citando il suo “macchinoso virtuosismo pianistico”. Proprio così. Io però non mi sento di esprimere lo stesso giudizio ascoltando la sua opera 3 numero 2, il “Preludio in do diesis minore” che nel 1892, quando ancora non aveva vent’anni, rese celebre l’autore e lo fece amare da tutto il mondo musicale. Devo invece riconoscere con Mila che questo Concerto, pur non mancando di alcuni spunti che lo rendono – come dicevo – interessante, è proprio “macchinoso e virtuosistico”.

Non sono invece d’accordo con Giacomo Manzoni che nella sua “Guida all’ascolto della musica sinfonica” dice di ritrovare nel quarto Concerto “le più tipiche effusioni romantiche di Rachmaninoff, un empito che più di una volta sconfina nella retorica ma che viene sempre riscattato dalla freschezza delle idee musicali che non si preoccupano di mascherare il loro eclettismo e si susseguono con inesauribile ricchezza ….” È difficile dissentire da Manzoni, mi rendo conto, e tuttavia sono convinto che vi sia poco romanticismo e anche poca retorica nei tre movimenti del Concerto, mentre vi riconosco un grande impegno nel decifrare il “nuovo che avanza impetuosamente” negli anni venti americani e non solo.

E per finire devo dissentire anche da Marco Benetti che, nel peraltro ottimo programma di sala, definisce “felice” il finale del Concerto che io non esiterei a descrivere come poco ispirato, frettoloso e anche un po’ superficiale; mentre concordo pienamente con lui laddove individua sia “l’anticipazione delle colonne sonore degli imminenti Colossal cinematografici” sia “il suggerimento di un barlume impressionista, soprattutto nel trattamento riservato al pianoforte”. Dal quale pianoforte, nel bis, ci saremmo attesi sì uno dei ventiquattro preludi di Rachmaninoff ma scelto fra i più meditativi e riflessivi anziché quello, ancora virtuosistico, eseguito dall’impeccabile Petrushansky!

Paolo Viola

 

 

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

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