11 novembre 2015

FACCIAMOLA FINITA COI MANAGER ARLECCHINI SERVITORI DELLA POLITICA


Quello che sta succedendo in questi giorni, sull’asse Roma – Milano, pur con opposti risultati, induce a una valutazione abbastanza condivisa: la politica è commissariata, ha vinto il partito dei manager. Sembra una buona spiegazione, e in parte lo è, se non fosse che trascura la causa primaria di questa – come chiamarla? Ancora una volta … – deriva. Certo la corruzione e la corruttibilità del ceto politico giocano la loro parte. E così pure la sua scarsa qualità, la mancanza di leadership o di visione (come si dice senza ironia, scordando la glaciale battuta di Helmut Schmidt che ne faceva qualcosa di psichiatrico).

04degaspari39FBIn realtà un’analisi critica dell’evoluzione politica negli ultimi tre decenni porterebbe a una conclusione, se possibile, ancora più radicale: la politica si è ritirata. Il commissariamento è in pratica l’epifenomeno di un processo a tappe che vede nel partito dei manager il suo esito naturale. Bisogna comprendere bene quello che è accaduto, definirne la forma e il contenuto, perché, in caso contrario, difficile che la politica riprenda il suo ruolo, oppure, dovesse accadere, sarebbe un esito dai tratti autoritari, come in parte sta già avvenendo in un contesto che pure non appare del tutto definito.

Se il commissariamento è l’epifenomeno, per capirne la causa bisogna arrivare a quello che ci sta sotto. A mio avviso c’è un elemento che non è stato rilevato dalla politica e per il quale non trovo definizione migliore di questa: fine della territorialità. Ed è paradossale che più la territorialità  (tra poco dirò meglio che cosa intendo) della politica mostra la corda più una politica davvero bislacca si aggrappa ad essa (“torniamo al territorio, ascoltiamo la gente”) come a una zattera di salvataggio.

Per spiegare cosa intendo per fine della territorialità servono gli esempi, dopo una necessaria premessa su cui credo sia difficile non convenire: il partito dei sindaci, quella formuletta nata sul finire degli anni novanta che contrapponeva la buona politica locale, legata ai bisogni del territorio e dei cittadini, alla politica nazionale, intrigante e lontana da questi bisogni, oggi è del tutto improponibile (e infatti nessuno più ne parla) per ragioni fin troppo evidenti (senza tuttavia che ne siano stati analizzati a fondo l’avvento e la scomparsa).

Ebbene, è proprio dalla dialettica tra politica locale e politica nazionale che bisogna partire per capire quel che è successo. Gli esempi dunque: i grandi eventi, la ricostruzione di città devastate da eventi geologici (L’Aquila, ma non solo), la deindustrializzazione di interi territori, il fallimento economico (dichiarato o meno) di comuni grandi e piccoli. C’è stata una stagione, non ancora esauritasi, in cui la politica periferica non solo pensava di potersi estraniare e smarcare dalla politica nazionale, ma riponeva nel suo potere contrattuale con il centro tutte le chance di successo e di consenso.

Fare assegnare alla propria città finanziamenti o farla diventare sede di eventi di portata nazionale (grandi eventi per le grandi città, piccoli eventi per le altre) era il massimo dell’ambizione per molti amministratori locali. Nessuna riflessione sul contenuto nazionale, o sui riflessi più generali, delle politiche territoriali, nessuna analisi su ciò che avrebbe comportato, a livello nazionale, il sommarsi di politiche locali scriteriate, finanziate a debito e senza garanzie per il domani, nessun serio tentativo di riorganizzare le finanze e la macchina comunale in funzione delle trasformazioni richieste dalla crisi economica globale. Niente, o poco più di niente.

È stato così che il manager, che nelle intenzioni della politica, doveva essere solo una figura destinata a dar luce al politico di turno (“guarda come sono stato bravo: quel manager  l’ho scelto io e in definitiva è merito mio quanto lui ha realizzato”) gli ha preso la mano e sta prendendo il suo posto, per ora a livello locale. E laddove è necessaria la presenza di figura istituzionale, c’è sempre il prefetto. Così sembra di buon senso e quasi scontato quel che dice Renzi a Marino: se la città non funziona si cambia. È così: se la città deve solo funzionare, tanto vale metterci al comando un buon macchinista. E se c’è da gestire un Giubileo o concorrere per l’assegnazione delle Olimpiadi, se l’affare si ingrossa, è addirittura necessario. Le elezioni, ormai l’hanno capito tutti, sono una disgrazia che sarebbe meglio evitare: quando ci arriveremo faremo in modo di candidarci un macchinista, manager o prefetto che sia.

Ma anche tutto questo, a dirla tutta, è anch’esso epifenomeno di un processo di più lunga durata: la trasformazione delle politiche urbane in un fatto non tanto e non solo locale, ma localistico nel senso più volgare e limitato della cosa, sulla base di una totale deresponsabilizzazione per quanto il consumo di suolo, le trasformazioni d’uso più scriteriate, lo stampaggio di moneta fittizia attraverso la finanziarizzazione del territorio, possano produrre nel sistema economico-produttivo del Paese.

La crisi ha decretato la fine di questo tipo di territorialità e ha portato alla luce la crisi della sinistra, privata dei mezzi di costruzione del consenso (i soldi), e al tempo stesso dell’ambientalismo politico, incapace, sia di dar conto dei riflessi economici delle politiche urbane finanziate attraverso lo sfruttamento dei suoli sia di contrastarle in maniera minimamente efficace. Non è più praticabile una politica territoriale di basso profilo, quella dei bei tempi andati, dei sindaci paciocconi benvoluti da tutti, perché il pacioccone non ha più niente per farsi benvolere e se i soldi arrivano (che si tratti di risanamento geologico o di grande evento) meglio farli gestire da uno del mestiere piuttosto che da un pasticcione buono solo a tagliare nastri.

Diciamolo pure in maniera brutale: sul territorio, “tra la gente”,  ci puoi andare se hai qualcosa da dire (non per “ascoltare” e farti dare la linea), se hai una politica da proporre. In una parola, se sei credibile e capace di collegare in maniera coerente la politica locale a un programma più generale. La parola d’ordine che torna a circolare in questi giorni “prima il programma e dopo il candidato” sembra fatta su misura per completare l’opera. Che poi il manager di turno, incaricato di implementare il programma altro non sia che l’espressione di una lobby politico finanziaria che vuol prendersi quel che resta della città, come dimostrano i nomi di Sala, Marchini, Scaroni, Passera, non dovrebbe certo sorprendere.

 

Mario De Gaspari



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