11 marzo 2015

ARABI A PORTA NUOVA: OSPITI IN CASA ALTRUI? NUOVE E VECCHIE IDENTITÀ


L’entrata a gamba tesa della finanza del Qatar con l’acquisizione del cento per cento di Porta Nuova è stata commentata con prevalente apprezzamento, come una conferma del successo e del valore degli interventi che hanno trasformato in nostro paesaggio urbano assegnandogli finalmente una cifra di stampo internazionale, in grado di sfidare le altre metropoli.

06battisti10FBI fondi d’investimento che ne detenevano il possesso, già in partnership con quel fondo sovrano, avevano portato avanti la promozione e la realizzazione dell’intervento tramite Hines Italia senza offrire alternative rispetto a un processo di omologazione alle altre realtà metropolitane, mettendo in secondo piano quanto era rimasto dei caratteri distintivi che avevano fatto di Milano una città con una propria identità urbana.

Identità, ormai appannata, che si era storicamente basata su una solida borghesia produttiva, sulla qualità delle pubbliche istituzioni e su una struttura territoriale che prima della crisi manifatturiera manteneva ancora un forte legame tra il centro storico e una periferia fatta di fabbriche, produzione industriale, infrastrutture e una classe operaia organizzata e presente socialmente e culturalmente nel territorio.

Ma per quanto, l’influenza degli architetti stranieri, oltre a quella della finanza internazionale, sia stata certamente preponderante nella realizzazione dei recenti grandi interventi, la sensazione che la contraddizione tra innovazione e tutela dell’identità fosse ancora in qualche modo gestibile e modulabile nel tempo e nello spazio, ha fatto parte delle speranze e delle illusioni di molti di noi.

Infatti anche se quella guglia spiroidale di UniCredit, inusuale ma allo stesso tempo antiquata come simbolo architettonico, incombente e visibile da ogni punto della città, ha prodotto forti effetti di straniamento rispetto alla scala urbana alla quale eravamo abituati, la nuova skyline e il nuovo scenario hanno comunque esercitato un fascino condiviso da molti con manifestazioni di approvazione per quello che è stato interpretato come un rinnovamento troppo a lungo rinviato.

Va preso atto che Piazza Gae Aulenti, con il suo micropaesaggio orientato a offrire alla città più uno spazio di entertainment che di socializzazione, sta avendo un grande successo di pubblico e le famiglie vi si recano in visita in compagnia dei figli con lo stesso atteggiamento disponibile con il quale li accompagnerebbero a visitare un parco divertimenti.

Ma le questioni in gioco non riguardano soltanto i comportamenti e l’estetica urbana perché il fenomeno che si sta verificando corrisponde a una mutazione che tende a ridefinire il centro della città rispetto alla sua localizzazione e alle sue componenti storiche – Palazzo Reale, Duomo, Galleria, Scala, Castello Sforzesco – e i relativi spazi pubblici di pertinenza.

Un impianto dotato di una propria morfologia fatta di piazze, strade e assi collegati e allacciati tra di loro a formare un organismo riconoscibile e identitario con il quale siamo entrati in rapporto non solo come individui ma come collettività in tutte le sue articolate componenti sociali, per quanto non sempre esente da forme di marginalizzazione.

Nella sensibilità di molti tale sistema di riferimento viene progressivamente sostituito dal grande complesso a forma di punto interrogativo progettato da César Pelli, che avvolge Piazza Gae Aulenti, e dal suo prolungamento sull’area della ex stazione delle Varesine concluso dallo scomposto volume del grattacielo detto “Diamante”, che si confronta con quello molto prossimo della nuova sede della Regione, mettendo definitivamente in secondo piano il grattacielo Pirelli di Gio Ponti e la Torre Velasca dei BBPR che per cinquant’anni sono stati gli emblemi dell’architettura verticale milanese

Ma il fatto molto rilevante sul quale a mio parere non si riflette sufficientemente è che tale processo di sostituzione avviene in coincidenza con la costituzione della Città Metropolitana che mutando completamente la scala territoriale di riferimento tende inevitabilmente a individuare una propria più adeguata centralità in grado di mettersi in rapporto con un contesto di riferimento molto più ampio.

E la localizzazione di Porta Nuova, a diretto contatto con la Stazione Garibaldi, uno degli snodi fondamentali di integrazione delle differenti tipologie di servizio ferroviario – alta velocità, rete nazionale, rete regionale e locale con la MM – diventa, senza essere stato programmato, il centro della nuova Città Metropolitana che, almeno sulla carta, è già istituita a livello politico amministrativo.

Nell’editoriale della scorsa settimana Luca Beltrami Gadola commenta con spregiudicato realismo l’acquisto dell’intero insediamento di Porta Nuova da parte del Qatar, comprese le due torri del Bosco Verticale, come un fatto che rientra tra le pratiche finanziarie di accumulazione delle quali non ci si può più meravigliare; semmai la preoccupazione dovrebbe riguardare le modalità di una possibile convivenza, qui da noi, con la cultura islamica d’importazione che produce ben altre interazioni sociali ed esprime esigenze culturali alle quali non si offre adeguata risposta.

Tuttavia gli acquisti di banche, grandi magazzini, alberghi di lusso e squadre di calcio, che Beltrami Gadola cita come precedenti, restano nell’ambito di attività economiche più o meno remunerative mentre a Milano ci si trova di fronte all’acquisizione da parte del fondo sovrano di un altro stato, non tanto di alcuni edifici, quanto di un intero pezzo di città che già ora si presenta come il più importante e rappresentativo per l’area metropolitana in via di formazione.

Le caratteristiche degli spazi pubblici di Porta Nuova sono infatti tali da connotarsi, per quanto accessibili e aperti al pubblico, più come aree di pertinenza di quel complesso di edifici, anche per il fatto di trovarsi a sette metri al di sopra della quota del terreno circostante. Condizione che comporta di accedervi tramite scalinate, rampe pedonali, scale mobili e ascensori che accentuano la sensazione di dover superare una soglia per entrare in un ambito confinato rispetto al resto della città, che in futuro potrebbe anche inaspettatamente caratterizzarsi come extraterritoriale.

L’urbanistica è sempre meno una disciplina di progetto e sempre più una pratica di gestione che si limita a prendere atto delle trasformazioni della città e del territorio senza poterle realmente condizionare in funzione dell’interesse pubblico.

Facendo esclusivamente ricorso a una normativa basata soprattutto sugli indici non riesce a far valere scelte che riguardino gli assetti morfologici, insediativi e la qualità dell’architettura e del territorio, a dispetto di tutta la retorica che si spreca sui temi del paesaggio e dell’ambiente. E anche la vicenda di CityLife è la dimostrazione di quanto affermo.

Non sono tra coloro che ritengono che la città debba essere imbalsamata e ho spesso partecipato con impegno e entusiasmo ai piccoli e grandi concorsi di progettazione che in passato annunciavano le proposte di trasformazione della città e ne anticipavano i possibili effetti; ma il salto di scala dalla Milano municipale alla Città Metropolitana impone un approccio differente al modo di intrepretarne le dinamiche ed è necessario dotarsi di un adeguato apparato di strumenti e competenze che non si vedono ancora all’opera.

Chi avrebbe infatti il compito di studiare e monitorare questo scenario in movimento individuandone gli attori e, se non di governarlo, almeno prevederne gli esiti possibili? I disaggregati Piani di Governo del Territorio dei 134 comuni della Città Metropolitana non sono certamente in grado di svolgere questo ruolo e le necessarie strutture operative non sono ancora attive. Ora che anche il PUMS (Piano della Mobilità sostenibile) è stato pubblicato non esistono più alibi e lo scenario deve essere messo a fuoco. Ma di quali risorse umane e strumentali, oltre che di procedure sperimentate e certe, possiamo disporre per svolgere un compito tanto impegnativo?

Non è che nel frattempo questo pazzo Monopoli, giocato sulla nostra pelle, ci porterà ad accorgerci che siamo ospiti in casa d’altri?

 

Emilio Battisti



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