16 febbraio 2021
ELEZIONI MILANESI, TUTTI PER BONAPARTE
Piccolo vademecum elettorale
Molti amici e molti lettori si sono fatti vivi dopo il mio ultimo editoriale del 3 febbraio manifestando stupore e dissenso per la chiusa nella quale invitavo a votare per Sala: “Ma come? Tu che sei uno dei più inossidabili contestatori di Sala poi inviti a votarlo?” Un vecchio tormentone. Certo, invito a votarlo perché considero che ritornare ad un governo cittadino di centro destra o, peggio ancora di destra, per la Milano che vorrei sarebbe una vera sciagura: qualunque cosa è meglio.
Votare solo Sala e le liste a lui collegate? Questo è un discorso che mi riservo di fare in un prossimo editoriale: un discorso delicato che comporta la valutazione, difficile, di margini di rischio.
Una cosa sola è certa: comunque si voti, si vota per un sindaco frutto di un sistema di tipo “bonapartista”, un sistema che, detto alle spicce, è caratterizzato da una concentrazione di potere in mano ad un uomo solo, ancorché eletto con meccanismi di democrazia, una “democrazia partecipativa” consistente nel raccogliere pareri e opinioni che forniscono informazioni stimolando la collaborazione tra cittadini e rappresentanti, ma di per sé questa forma di democrazia non contempla strumenti per attribuire potere legislativo ai cittadini.
Questo impianto “bonapartista” per alcuni è chiamato anche “cesarismo” ma non vorrei addentrarmi in una discussione accademica. Se proprio il ricordo della tunica di Cesare macchiata di sangue o il tintinnare delle sciabole sembra troppo, posiamo parlare di “gollismo”.
Come ci siamo arrivati? Tutto è dovuto all’entrata in vigore nel 1993 della legge 81 che sanciva l’elezione diretta del sindaco e dal Decreto legislativo 267 del 2000 riordinava gli enti locali: le riforme cui pose mano Franco Bassanini, uomo politico dalle varie militanze ma sempre presente anche con un passaggio, per così dire giovanile, nel Consiglio del Comune di Milano ed è appunto a lui che attribuisco il bonapartismo del nostro Comune.
Il bonapartismo et similia arriva, dicono gli storici, quando le istituzioni dello Stato o la forma di governo vacillano e la politica genera instabilità con malumore dell’opinione pubblica.
Vediamo di capire come sono andate le cose a Milano.
Nelle elezioni del 1964 la sindacatura di Piero Bucalossi si aprì con lui sindaco ma una crisi di Giunta vide a sostituirlo nel 1967 Aldo Aniasi fino al 1976.
Poi vi furono tre sindaci socialisti, Aldo Aniasi per un decennio e sempre per un decennio Calo Tognoli e infine Paolo Pillitteri.
L’ultimo fu Giampiero Borghini che fu sindaco per 14 mesi e infine arrivò Marco Formentini, il primo sindaco eletto direttamente dai cittadini al secondo turno: il primo sindaco del dopo Tangentopoli, che scoppiò nel febbraio 1992 con l’arresto di Mario Chiesa.
L’ultimo periodo di governo della città a guida socialista fu un periodo di Giunte milanesi i cui mali dirò in seguito e a porvi fine arrivarono le due leggi alle quali ho accennato.
Cosa cambiò?
A grandi linee fino a quel momento il meccanismo era il seguente: all’elezione del Consiglio comunale concorrevano le liste presentate dai Partiti storici più qualche lista indipendente.
I Partiti decidevano la lista dei loro candidati con un capolista emblematico, seguivano candidati comunque rappresentativi, qualche indipendente e gli altri in ordine alfabetico.
Il risultato fu che il Consiglio Comunale era formato da consiglieri in numero proporzionale ai voti ottenuti dalle singole liste e a quel momento si formava una maggioranza risultato di un accordo tra Partiti che a sua volta eleggeva in Consiglio il sindaco. Il sindaco eletto per accordo tra i Partiti raccoglieva le indicazioni per la designazione degli assessori che avrebbero formato la sua Giunta, la presentava in Consiglio per ottenere il voto favorevole.
I poteri del Consiglio erano amplissimi, riguardavano praticamente tutti gli aspetti della vita amministrativa del Comune e dal Consiglio passavano le scelte più impegnative dal punto di vista politico.
I difetti di questo sistema erano sostanzialmente uno: ogni decisione di Giunta o di Consiglio passava attraverso il vaglio dei Partiti che in sostanza avevano un potere elevato nei confronti di sindaco e Giunta e con trattative logoranti sulle quali pesava sempre la possibilità di un ricatto che avrebbe eventualmente portato alle dimissioni di un assessore con il problema della formazione di una nuova Giunta e i relativi problemi di equilibrio.
Un’ultima osservazione: le campagne elettorali dei candidati erano molto costose e spesso prevaleva chi aveva più mezzi economici a disposizione e da qui in parte le cause della corruzione conseguenza dei “debiti” elettorali.
Di vantaggi in sostanza uno ma il più importante: i Partiti allora avevano un forte insediamento sociale e dunque attraverso i propri eletti in Consiglio che rappresentavano le istanze, gli orientamenti e le opinioni dei cittadini anche se spesso davano luogo ad operazioni clientelari. Gli eletti in Consiglio erano sensibili agli umori della città che conoscevano per esperienza diretta.
La instabilità del sistema preoccupò molto la sinistra italiana e in particolare l’allora PDS che divenne fautore di una riforma degli enti locali che cambiò radicalmente il rapporto tra cittadini ed eletti nel nome di una desiderata “stabilità”. A questo criterio di stabilità si uniformò anche lo Statuto del Comune di Milano nel 1996, Statuto nato sotto l’influenza del Bassanini che fu presidente della commissione delegata alla redazione del testo.
Eccoci dunque quel che seguì con l’entrata in vigore del nuovo ordinamento.
Elezione diretta del sindaco, assessori nominati dal sindaco e la cui nomina non passa dunque dal Consiglio comunale. Gli assessori, se consiglieri comunali, come vengono cooptati in Giunta perdono lo status di consiglieri e quindi, se revocati, vanno a casa: il sindaco può revocare la delega agli assessori a suo arbitrio (vedi vicenda Boeri-Pisapia), e quindi sbarazzarsene. Potente arma di persuasione.
Le Commissioni consigliari hanno nei fatti solo potere consultivo, se il sindaco non ne accetta le indicazioni ha solo l’obbligo di motivare questa sua scelta ma non entra in crisi: una eventuale mozione di sfiducia deve ottenere la maggioranza dei consiglieri che se provocano la caduta del sindaco tutti vanno a casa, cosa “sgradevole”, e si va a nuove elezioni, le dimissioni della maggioranza dei consiglieri (accadrà mai?) porta ovviamente a nuove elezioni, il Consiglio comunale ha solo poteri in materia di bilancio e di formazione degli strumenti urbanistici generali.
È arrivato il cesarismo/bonapartismo/gollismo.
Il sindaco dunque è il dominus assoluto dell’amministrazione comunale e questo è utile lo sappiano gli elettori nel bene e nel male.
Dobbiamo ancora parlare della separazione di poteri tra gestione amministrativa e gestione politica, del ruolo della burocrazia comunale e del meccanismo di elezione di sindaco e Consiglio e, per finire, delle strategie elettorali tra liste che candidano lo stesso sindaco e liste che candidano un loro sindaco, il tutto sempre nel solco di una informazione per un voto consapevole.
Luca Beltrami Gadola
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