6 luglio 2016

musica – DER ROSENKAVALIER


Il Cavaliere della Rosa” è l’opera più italiana di Richard Strauss, nonostante sia lui che Hofmannsthal, autore del libretto, abbiano inteso farne un’opera viennese, tanto da ambientarla nella capitale austriaca nel momento del suo massimo splendore settecentesco e da usare il dialetto viennese per i testi; dico “italiana” nella misura in cui anche le opere mozartiane – cui sembra si riferissero gli autori – grazie a Lorenzo da Ponte avevano la loro parte di italianità. Ed è italiana anche per essere figlia dell’opera buffa napoletana (certe battute, scavalcando i tempi, ricordano addirittura Totò!), per la teatralità squisitamente rossiniana, per l’evidente assonanza con il libretto del Falstaff di Verdi che precedette il Rosenkavalier di soli diciotto anni. L’italianità è anche tradita dal libretto che in più parti usa l’aggettivo “italiano”, ahinoi, in termini spregiativi (“… non sono un generale italiano… ladro italiano!… italiano birbante …”) lasciando intendere quanto meno che il tema era ben presente agli autori.

musica25FBNel racconto, o meglio nel libretto, scopriamo echi letterari di grande suggestione. Scrive per esempio Hofmannsthal – nell’Epilogo non scritto al Cavaliere della Rosa (1911) – che “Le forme erano là e agivano davanti a noi … il Buffone, il Vecchio, il Giovane, la Dama, il Cherubino …. Ognuno ha bisogno dell’altro … Esse appartengono le une alle altre …”. Mentre Strauss scriveva a Hofmannsthal, a sottolineare la molteplicità delle risonanze che si rincorrono nello snodarsi della vicenda, “Lei è Da Ponte e Scribe in una sola persona”. Come non pensare a Molière – L’avaro – quando vediamo il grossolano e presuntuoso barone Ochs sospirare per la giovane e delicata Sophie, o il signore di Faninal aspirare – costi quel che costi (vedi Il borghese gentiluomo) – a un titolo nobiliare? E a Shakespeare de Il sogno di una notte di mezza estate, dove i congiunti sono separati e i separati sono congiunti? E che dire del Cherubino de Le nozze di Figaro?

Ma l’opera è anche femminista, in questo sì mozartiana. Le due protagoniste femminili – la matura e aristocratica Marescialla e la giovane borghese Sophie – emergono come figure luminose e consapevoli, abili nel mettere in ridicolo l’unico protagonista maschile, il tronfio Barone cui è affidata la parte del potente volgare e arrogante. Hofmannsthal sembra voler mettere in luce la stupidità del potere – maschile e di casta – e la vuotezza di una nobiltà che sta perdendo il ruolo di comando e il proprio prestigio. La parte psicologica più complessa della vicenda è tuttavia quella del giovane Ottavio che si barcamena fra le due innamorate, il quale non solo è fisicamente, sul palcoscenico, una donna (né potrebbe essere diversamente essendo la sua voce quella del mezzosoprano) ma si ri-traveste da donna per gran parte dell’opera, ottenendo un effetto di ambiguità sorprendente che oserei dire di curiosa attualità.

Ha anche qualche parvenza da operetta e ciò che dispiega è una vicenda sottile nella quale la malinconia autunnale della Marescialla si confronta con l’ambigua seduzione del Cavaliere. Alla fine è la Marescialla a decidere, a fare la scelta dolorosa e necessaria di allontanare da sé il fantasma della giovinezza. Chissà, forse il tema vero de “Il Cavaliere della Rosa” sta nella consapevolezza dello scorrere del tempo, del finire di tutte le cose.

È stato uno spettacolo di grande bellezza e di altissima qualità, il Rosenkavalier andato in scena alla Scala dal 4 giugno al 2 luglio, che avrebbe meritato code chilometriche per assistervi mentre, a causa della stagione – e nell’ultima replica anche a causa della concomitante partita Italia-Germania – ha visto più volte la sala mezza vuota. Coprodotto dalla Scala e dal festival di Salisburgo è stato realizzato in modo sublime dal nostro teatro con la perfetta regia musicale di Zubin Metha.

Fin dalle prime note – da quell’Ouverture che ci introduce al tumulto dei sensi che ha appena sconvolto la Marescialla e il suo giovane amante Ottavio – si è capito che la qualità musicale era di altissimo livello. Un Metha sicuro e determinato guidava con grande pacatezza e precisione un’orchestra compatta e impegnata, ai massimi livelli europei, come talvolta (raramente?) capita nella nostra bella sala, a dimostrazione del fatto che quando sono guidati bene – e quando ci credono fino in fondo – i nostri scaligeri sanno il fatto loro e possono dare tanto (valendo ovviamente anche il ragionamento inverso, che quando qualcosa non li convince o non li prende danno assai meno di quanto potrebbero!).

Un aspetto affascinante di questa edizione era costituito dalle scene (semplici e grandiose, di Hans Schavernoch), dai costumi (appropriati ed eleganti, di Yan Tax), dalle luci (taglienti e incisive, di Jürgen Hoffmann) e dalla potenza delle immagini proiettate sui fondali (i video di Thomas Reimer) che, insieme alla regia di Harry Kupfer e alla direzione di Zubin Metha, hanno assicurato all’opera di Strauss una formidabile coerenza e compattezza di idee e di suggestioni; l’opera aveva un ritmo perfetto, non ammetteva distrazioni, metteva in risalto la musica in ogni passaggio facendone emergere ogni suo sentire, soprattutto assecondava l’ossessione straussiana di legare parole, musica e gesti in un “teatro totale”.

Bravissimi infine gli interpreti e in particolare la soprano bulgara Krassimira Stoyanova (che si è formata in un paese storicamente molto musicale come Plovdiv) nella parte della Marescialla e il basso austriaco Günther Groissbock nella parte del barone Ochs. Bravi, anche se non brillantissimi, l’alsaziana mezzosoprano Sophie Koch nella difficile e ambigua parte di Ottavio e la soprano bavarese Christiane Karg (una Sophie un po’ troppo ingenua e infantile ma con un’ottima impostazione vocale). Incredibilmente emozionanti, a onore di Metha, il duetto finale del primo atto e il meraviglioso trio (tutto femminile) con il quale si conclude l’opera.

Paolo Viola con Maria Matarrese Righetti

 

questa rubrica è a cura di Paolo Viola

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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