22 ottobre 2014

DUE CONCORSI DI ARCHITETTURA SENZA UN’IDEA DI CITTÀ


Finalmente qualche concorso di architettura, aperto e con un bando semplice ed efficace, frutto della collaborazione tra Ordine e Comune. Era dai tempi lontanissimi dell’assessore Gianni Verga che non si assisteva a una stagione di concorsi, e dopo l’enorme occasione persa di Expo. Speriamo che sia un inizio.

07caruso36FBMa l’esito non è altrettanto entusiasmante, e rivela, come ha già sottolineato Nicola Rovere nella conclusione del suo intervento su ArcipelagoMilano del 14 ottobre, i limiti dell’orizzonte critico dell’Amministrazione milanese, la mancanza di un’idea di città.

Prima di tutto c’è la questione del processo partecipativo, che non è stato portato avanti fino alla formazione di orientamenti certi sulla destinazione degli spazi. L’elenco delle attività da insediare sul cavalcavia Bussa era infinito, i partecipanti erano invitati a scegliere tra tutte le funzioni possibili, esclusa la residenza e le attività produttive: verde di ogni natura, spazi per cultura, spettacoli, eventi, mostre, attività associative, sport di ogni disciplina, commerci e scambi più diversi.

La politica, sia essa centralizzata o partecipata, non deve rinunciare a decidere il programma, non può rimandarlo alle idee degli architetti, che hanno un altro compito, quello di interpretare e progettare gli spazi e le forme più funzionali ed espressive per ospitare le attività indicate dal programma. Altrimenti le giurie non sanno se giudicare la qualità delle attività proposte dagli architetti o quella dell’architettura che le deve ospitare. E anche la successiva realizzazione dei progetti diventa critica e incerta, in attesa di decidere quali attività ospitare.

In Svizzera o in Francia, dove ogni opera pubblica (e non solo pubblica) viene realizzata a seguito di un concorso, i programmi contenuti nei bandi sono chiari e circostanziati, e la comparazione tra le proposte spaziali da parte della giuria diventa immediata.

Il progetto vincitore del concorso del cavalcavia Bussa risolve la questione con una serie di spazi diversi per attività diverse, e caratterizza il progetto con una struttura di tubolari collocata sul bordo esterno del cavalcavia, un manufatto simile a quello del MFO-Park di Zurigo Oerlikon. Quest’ultimo risolve con leggerezza poetica uno spazio urbano chiuso tra fabbricati, utilizzando la terza dimensione per moltiplicare le superfici con percorsi e aree di sosta in quota, senza la velleità di realizzare un landmark.

Milano ha forse bisogno di erigere i simboli di un cantiere in corso (un’impalcatura, figlia dell’evento e dell’improvvisazione, l’ha definita Rovere), di rappresentazioni della provvisorietà, dell’incertezza e del disorientamento sulla direzione della sua trasformazione urbana? E di erigerli proprio qui, sul bordo di quest’area dove sono stati realizzati enormi icone di vecchi modelli di sviluppo, tarde imitazioni delle down town americane di tanti decenni fa, già imitati con insuccesso da altre città europee?

E poi, lo scatolone del parcheggio biciclette, collocato sul fianco della stazione, a occultare il profilo della sezione di Minoletti, Gentili Tedeschi e degli altri autori di quest’opera eccellente della modernità milanese. Già i nuovi fabbricati occultano la prospettiva di corso Como per chi esce dalla stazione, impedendo di capire da che parte è il centro, di capire come è fatta la città. Con lo scatolone previsto in questo progetto si completa il misfatto, impedendo a chi arriva da corso Como di vedere la stazione, o comunque di apprezzarne l’architettura, l’ardito doppio aggetto della copertura.

Riguardo al Centro Civico dell’Isola, il progetto vincitore va apprezzato per l’evidente atteggiamento antispettacolare che lo distingue, ma il manufatto (che nonostante la piccola scala avrà una grande evidenza nel parco) è modesto. Non ci pare possibile evitare il confronto, come è invece affermato nella relazione illustrativa del progetto, con il concetto di monumentalità dell’edificio pubblico. L’edificio pubblico si deve distinguere dai manufatti dell’area residenziale, perché ospita attività rare, eccezionali, e deve rappresentare la collettività, la sua cultura, e deve determinare il carattere dello spazio che occupa. Altrimenti non è tale, non è urbanisticamente appropriato.

Il fabbricato volta le spalle al percorso che lo collega allo storico quartiere dell’Isola e si apre invece verso il parco, rivelando l’adesione dei suoi autori alla retorica dominante del verde, che è ormai il surrogato vincente della mancanza di un’idea di città.

Non condivido la richiesta, cui anche Rovere si appella criticando il progetto del cavalcavia Bussa, di riempire di verde le superfici pubbliche già edificate, come il parterre cementizio del cavalcavia. Consapevoli di avere riempito di case ogni area libera di dimensione consistente, di non aver saputo governare e disegnare il territorio resistendo alle pressioni immobiliari, pensiamo di rifarci una verginità progettuale enfatizzando l’effetto del verde pensile, progettando prati e alberi sopra strati di impermeabilizzazione, dotati di irrigazione artificiale e di sistemi di raccolta e convogliamento delle acque.

Sarebbe più importante impegnarsi a individuare e progettare gli spazi per realizzare boschi orizzontali, e per sostenere le ragioni di una città nella quale gli spazi pubblici vuoti (vuoti da disegnare, non da lasciare nello stato di residui delle aree edificate) siano elementi determinanti della forma urbana, proprio perché luoghi di relazione intensa tra le parti edificate, non pause estranianti rispetto alla città costruita.

 

Alberto Caruso



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