17 gennaio 2012

MR. D’ALFONSO E LE LIBERALIZZAZIONI


In due recenti articoli apparsi su Arcipelago Milano (“Giù le mani dalle municipalizzate“, e “Contro le liberalizzazioni“) l’assessore Franco D’Alfonso ha preso nettamente posizione con-tro le liberalizzazioni, che molti (dal presidente della BCE Mario Draghi, al Governatore della Banca d’Italia Vincenzo Visco, al capo econo-mista del Fondo Monetario Internazionale Olivier Blanchard) ritengono ingrediente fondamentale (ma non unico, ovviamente) di una politica capace di rafforzare la crescita economica e di contenere il disavanzo pubblico. Ma anche l’evidenza empirica va in questa direzione, quando indica come le liberalizzazioni dei servizi in un paese abbiano effetti positivi sulla produttività (e quindi sulla competitività) delle imprese manifatturiere dello stesso paese, che utilizzano quei servizi come input intermedi, e come “l’apertura dei servizi ai produttori stranieri è un canale chiave attraverso il quale la riforma dei servizi influisce sulla produttività dei settori manifatturieri a valle” (1).

È troppo facile ironizzare sulla possibilità che la liberalizzazione degli orari dei negozi o la liberalizzazione dei taxi e delle farmacie faccia aumentare il Pil di questo paese, che – dopo anni di crescita stentatissima e una crisi che ha colpito più che altrove – è tornato ad avere il Pil reale pro-capite di diciassette anni fa. Anche se adesso la crisi sta falciando i piccoli esercizi, andrebbe onestamente riconosciuto che il settore del commercio al dettaglio in Italia è ancora caratterizzato, rispetto ad altri paesi, dalla presenza di un grandissimo numero di “botteghe”, con una sotto-rappresentazione dei punti vendita di maggiori dimensioni. Questo assetto polverizzato del commercio, lungi da produrre maggiore concorrenza, genera inefficienze che si traducono in prezzi più elevati per i consumatori. È garantendo nicchie di concorrenza monopolistica che l’assessore al commercio vuole difendere i cittadini-consumatori?

Il fatto che un piccolo negozio, per essere redditizio, debba fondarsi sull’auto-sfruttamento famigliare e assumere il minor numero di dipendenti possibile (e che quindi veda con favore una severa limitazione degli orari di apertura) non è che la conseguenza dell’impossibilità di sfruttare le economie di scala. Quanto alle infiltrazioni mafiose nel commercio, si dovrebbe sapere che sono tanto più probabili quanto più polverizzata e diffusa è la distribuzione commerciale, dove più intensa è l’attività svolta “in nero” e quindi maggiore l’evasione fiscale. Non sembra, peraltro, che la minuziosa regolazione “ex-ante”, di cui D’Alfonso sembra farsi paladino, abbia impedito le infiltrazioni malavitose nella piccola distribuzione a Milano come altrove. Mentre sostenere che i locali della movida sono “totalmente incontrollabili dal punto di vista dell’ordine pubblico e della quiete pubblica” appare come una dichiarazione di resa o di sfiducia preoccupante se fatta da un pubblico amministratore.

A me sembra che, dietro l’opposizione dei commercianti alla liberalizzazione si celi la sostanziale ostilità per la crescita industriale del settore della distribuzione commerciale. La stessa ostilità che spiega il tenace attaccamento dei tassisti al sistema della licenza singola – che ne preserva il ruolo di piccolissimi imprenditori in un regime di concorrenza limitata e, quindi, di rischio bassissimo. La stessa ostilità che spiega l’opposizione dei padroncini alla liberalizzazione dell’autotrasporto. Non stupisce che tutti questi soggetti non vedano alcuna relazione tra il fatto che l’Italia sia il paese che ha da due decenni il più basso tasso di crescita in Europa e il fatto che l’Italia sia il paese con la più elevata quota di lavoro autonomo e la dimensione aziendale più piccola (e una delle maggiori evasioni fiscali) d’Europa. Però stupisce che non lo veda un assessore come D’Alfonso, con la sua lunga esperienza di manager Fininvest e Mediaset.

Quanto alle “municipalizzate”, di cui D’Alfonso si fa gran sostenitore (a nome di tutta la giunta Pisapia; ma saranno davvero d’accordo gli altri assessori?), non è un caso se persone e istituzioni citate a sostegno dell’impresa pubblica territoriale siano un tantino datate: il sindaco Caldara, le associazioni di arti e mestieri del primo Novecento, perfino Alberto Beneduce, che non era un pericoloso comunista ma certo un socialista riformista passato a fare il consigliere e poi il grand commis del regime fascista.

Sia chiaro, nessuno crede che nell’ambito dei servizi pubblici locali (trasporti, rifiuti, illuminazione pubblica, udite udite: acqua!) si possa lasciare tutto al mercato e rinunciare alle regole. È caricaturale dipingere i “liberalizzatori” in questo modo. Ma appare singolare ignorare, alla fine del primo decennio del XXI secolo, che esistono alternative alla produzione pubblica, fondate su vari meccanismi di regolazione diretta o mediante sistemi di gara pubblica e trasparente (che, si dia pace D’Alfonso, le gare sono appunto uno strumento di regolazione, non il mercato “selvaggio”). Certo, la gara messa in piedi dalla giunta Albertini e completata dalla giunta Moratti per i servizi di trasporto a Milano grida vendetta, per l’incredibile marchingegno volto a escludere qualsiasi partecipante tranne Atm; ma non crede D’Alfonso che si possa fare di meglio? Inoltre, è difficile non cogliere la contraddizione tra la (giustissima) critica di D’Alfonso all’assurdo progetto di politica industriale per la fusione tra Atm Milano e Atm Torino portato avanti dalla giunta Moratti e il ruolo che, secondo lo stesso D’Alfonso, il Comune dovrebbe avere in una difficoltosa politica industriale territoriale. Né si capisce perché la politica industriale di una istituzione pubblica richieda il controllo azionario delle aziende e non possa essere fatta attraverso meccanismi di incentivazione, contratti, indirizzi politici. Il governo, anche quello locale, non è una holding. Berlusconi non l’aveva capito, ma sarebbe auspicabile che lo capissero gli assessori di una giunta di centro-sinistra.

Veramente pochi paladini delle liberalizzazioni sosterrebbero che si debba privatizzare la rete di metropolitane o la rete fognaria o quella semaforica. Neanche le leggi fatte approvare al Parlamento dal governo Berlusconi imponevano questo. Ma se ci si riferisce alla gestione dei servizi, il discorso è diverso. Non si possono ignorare i risultati raggiunti in una città come Londra con l’affidamento dei servizi di autobus mediante gara (linea per linea, non per grandi lotti o “lotti unici”). Non si può ignorare l’evidenza empirica che, almeno con riferimento ai servizi (non le reti!) di trasporto locale, le imprese totalmente pubbliche o parzialmente pubbliche esibiscano un livello di efficienza inferiore a quello delle imprese private e che le imprese che godono di affidamenti diretti siano meno produttive di quelle che ottengono l’affidamento tramite gara (2). Da persona di sinistra, mi è sempre sembrato assurdo che ci siano politici di sinistra disposti ad accettare una compressione del welfare state pur di mantenere pubbliche e inefficienti le gestioni delle utilities.

Andrea Boitani

(1) J.M. Arnold, B.S. Javorcik, A. Mattoo: “Does services liberalization benefit manufacturing firms? Evidence from the Czech Republic”, Journal of International Economics, 2011, pp 136-146.

(2) Sia consentito il riferimento ad A. Boitani, M. Nicolini, C. Scarpa: “Do competition and ownership matter? Evidence from local public transport in Europe”, Applied Economics, 2013, pp.1419-1434, disponibile online all’indirizzo http://dx.doi.org/10.1080/00036846.2011.617702.



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