13 dicembre 2011

GIÙ LE MANI DALLE MUNICIPALIZZATE


Fra i tanti paradossi di una crisi nata dal debi-to privato degli Stati Uniti e diventata quella del debito pubblico europeo puntuale si ripre-senta la giaculatoria delle privatizzazioni come rimedio e linimento di tutti i mali. Senza distin-guere fra carrozzoni di Stato e aziende che gestiscono servizi pubblici, fra Spa e consorzi inventati (generalmente dal centrodestra “libe-rista”, ma questo viene di solito consi-derato un dettaglio) per dare un gettone extra a un assessore e aziende di storia secolare come quelle del Comune di Milano, il furore liberista vorrebbe colpire,  anche  attraverso il decreto Monti, quella che soprattutto per i Comuni del Nord è una delle leve di politica di sviluppo create dalle comunità locali e che costituiscono l’asse portante di qualsiasi sistema di autonomia locale che si rispetti.

Una politica non dico federalista ma semplicemente moderatamente autonomista di Milano e Lombardia non avrebbe il minimo senso se non potesse poggiare sulle eredità che il municipalismo del sindaco Caldara e le associazioni di arti e mestieri dell’inizio del Novecento hanno lasciato e che le amministrazioni riformiste degli anni del dopoguerra hanno consolidato e sviluppato: la rete ferroviaria diventata urbana delle Ferrovie Nord o la rete di distribuzione gas ed energia della Aem voluta dal sindaco Tognoli sono asset strategici oggi fondamentali, così come lo sarebbe la disponibilità della rete in fibra ottica di Metroweb sciaguratamente svenduta dai predecessori di Giuliano Pisapia, che non posso pensare vengano affidate a presunti “capitani coraggiosi” privati che intendano ripetere su scala locale quanto già esibito con le operazioni Telecom o Alitalia .

Un Comune come Milano ha il diritto e il dovere di sviluppare una propria politica industriale, decidendo secondo le proprie priorità e convinzioni quali siano le società strategiche e quali no, quali siano gli ambiti nei quali la collaborazione con i privati sia utile e soprattutto quando e in che modo un servizio pubblico possa essere affidato a una gestione privata e quando invece non lo sia. Decidere secondo vulgata liberista ha portato, per fare solo un esempio, la città di Vienna a essere in affannosa ricerca dei fondi necessari per ricomprarsi da un fondo Usa la propria rete di metropolitana, che da quando è stata privatizzata non è avanzata di un solo km, si è deteriorata in maniera intollerabile per i cittadini di una capitale della Mitteleuropa trionfante e soprattutto costa agli utenti più del doppio in termini reali rispetto ai tempi della gestione propria. E le priorità strategiche del Comune di Milano sono chiare: infrastrutture di trasporto (quindi la Sea), trasporti urbani (Atm), reti e servizi di area (Mm, A2A, Amsa e wi fi), casa e immobili di servizio, dagli uffici ai parcheggi.

Quello che l’amministrazione Pisapia è chiamata a fare è darsi una propria strategia e trasmetterla poi come azionista alle società “municipalizzate” per realizzarle in tutto o in parte, gestite queste secondo i criteri che Beneduce, non un pericoloso comunista, da allievo di Nitti tratteggiava nel 1913: pochi servitori dello Stato alla guida, pagati il giusto, efficienza operativa superiore a quelle dei concorrenti privati, massimizzazione degli obiettivi di servizio pubblico, focus sugli investimenti e non sulla massimizzazione dei profitti. Questo significa procedere a una “focalizzazione” delle aziende sugli obiettivi dettati dall’azionista Comune e impedire che proseguano quelle autentiche sciagure che sono state le operazioni A2A o il contratto di servizio Atm.

La logica delle grandi dimensioni aziendali (discutibile in assoluto, ma particolarmente poco opportuna per una azienda territoriale) ha portato alla creazione di un “colossino” operante su due territori urbani non complementari dai quali le aziende Aem e la sua omologa bresciana traevano la loro ragion d’essere, con il risultato che il management, privo di indicazioni dal socio, si è ritenuto libero di “competere” su un mercato completamente nuovo e diverso, con dimensioni comunque inadeguate, con il risultato di essere invischiati disastrosamente in partite come quelle della Edison o nell’ancora più incomprensibile avventura dell’elettrificazione del Montenegro, il cui livello di perdite addotte, quando sarà noto nella sua interezza, non potrà che aprire grossi e inquietanti interrogativi.

Dare una svolta, dal punto di vista del Comune di Milano, alla gestione A2A significa riportare la strategia aziendale ad avere al centro la gestione e la distribuzione dell’energia sul territorio urbano, la valorizzazione e l’utilizzo della rete di distribuzione di sottosuolo e ultimo miglio, soprattutto riportare a una funzione di servizio l’Amsa sciaguratamente inserita come “osso” dalla giunta Moratti per mantenere impossibili equilibri di pesi e poltrone nell’unione con i bresciani. Sono personalmente molto perplesso sull’idea che il futuro di A2A possa essere quello di integrarsi con altre ex municipalizzate del Nord per aumentare le dimensioni di fatturato e utenti creando automaticamente valore per gli azionisti, fatto questo del tutto indimostrato e indimostrabile: ho paura si tratti della ripetizione su scala allargata dell’errore commesso con la fusione con l’azienda bresciana, creando una società più grande con problemi più grandi, non una grande società.

Un’altra azienda che richiede un intervento immediato di rifocalizzazione è certamente l’Atm, la cui criticità nelle politiche dell’amministrazione Pisapia è di evidenza solare. La formula del contratto di servizio in essere, che deresponsabilizza l’azienda sul lato dei ricavi e di fatto la riduce a essere una sorta di Direzione generale “esterna” con minori obblighi di verifica e controllo deve essere rivista a tempi brevi, restituendo responsabilità gestionale al Consiglio di amministrazione Atm e riportando il Comune al ruolo di azionista e non a quello di gestore diretto. Dopo avere per fortuna abbandonato l’ipotesi di una nuova operazione priva di senso industriale come era ed è quella di una fusione con l’azienda omologa di Torino (ancora il fascino indiscreto dei “grandi numeri” in sostituzione delle grandi idee!) il pensiero strategico dell’azionista Comune dovrà orientarsi verso la creazione di una grande azienda di trasporti urbani su scala metropolitana, in grado di rispondere alle esigenze dei flussi dell’intera area di cinque milioni di abitanti e non di quella che la giunta della signora Moratti interpretava essere una sorta di “giardino cintato” interno ai confini daziari.

Ma la “municipalizzata” della quale occorre occuparsi al più presto è quella che ancora non c’è, l’immobiliare “Città di Milano”. La creazione di una società pubblica di gestione del grande patrimonio immobiliare di case e servizi (uffici, parcheggi, impianti) che Milano ha accumulato in oltre un secolo di storia, che vale almeno cinque miliardi di euro, doterà il Comune di uno strumento molto importante e flessibile: potrà gestire dismissioni e incorporazioni con una flessibilità maggiore, permetterà di assegnare precise responsabilità gestionali e di costo alle diverse Amministrazioni che saranno inquilini paganti dei vari palazzi pubblici ora occupati “a ufo”, ma soprattutto potrà funzionare da unità di finanziamento e investimento.

L’emissione di obbligazioni della nuova società potrà garantire la raccolta fondi per investimenti su infrastrutture necessarie per la città, smobilizzando quelle non più strategiche: perché ad esempio non pensare a un grande piano parcheggi di corrispondenza che potrebbero essere costruiti dalla nuova immobiliare per poi essere affidate a titolo oneroso alla gestione Atm o anche di terzi, utilizzando proprio i fondi raccolti anche attraverso questo piano di obbligazioni bond della città? Oppure a un piano di riconversione e cambiamento di destinazione d’uso di almeno una parte dell’oltre un milione e mezzo di metri cubi di edilizia commerciale oggi vuoto e inutilizzato di proprietà privata attraverso la creazione di società miste che riconsegnerebbero al mercato centinaia di alloggi e residenze per il segmento del cosiddetto “housing sociale” indispensabile per ridare volto e vita alla nostra città?

Queste idee – assolutamente personali ma che so essere condivise da molti colleghi dell’amministrazione di Milano – e tante altre che sono prospettate ogni giorno al sindaco da tante persone fisiche e giuridiche che vedono nella giunta Pisapia l’occasione per ridare a Milano un ruolo attivo e trainante proprio in una situazione di crisi come quella che stiamo vivendo, sono vive e valide partendo dal presupposto che i periodi di prosperità e sviluppo di Milano sono sempre stati condizione necessaria e traino per lo sviluppo del Paese intero e che il detto “Milano fa da sé” deve essere inteso come la capacità della comunità milanese di trovare energia, forze e talenti al proprio interno o con la propria capacità di attrazione, al servizio di un disegno di sviluppo globale e non locale. Ma questa forza di Milano non deve essere sottoposta a vincoli “nazionali” che, oltre ad essere discutibili in sé, perdono di vista le differenze intercorrenti fra gli oltre ottomila comuni d’Italia pretendendo di fissare una regola uniforme tanto sui bilanci quanto sulle politiche industriali.

Franco D’Alfonso



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