11 gennaio 2011

FUTURO: LA PRODUTTIVITÁ DEI PADRONI


Assai lodevolmente Repubblica ha cercato nei giorni scorsi di riportare la discussione sulla Fiat ai dati di realtà dell’azienda. In particolare sono stati esposti quelli riguardanti il numero di auto prodotte per ogni stabilimento italiano ed estero, il numero dei dipendenti per ogni fabbrica e quindi è stata calcolata la loro produttività, caso per caso e paese per paese. Abbiamo appreso, da questi dati, penso ufficiali, cioè tratti dalla stessa azienda, che la produttività Fiat in Italia è disastrosamente bassa, meno del 30% di quella delle fabbriche polacche e molto inferiore anche di quelle brasiliane.

Se tutto ciò è vero e se è vero anche che il costo del lavoro complessivo delle imprese metalmeccaniche oggi in Italia si attesta mediamente (sarebbe bene conoscere esattamente il dato Fiat) attorno al 15%, massimo al 20%, allora c’è qualcosa che non funziona in questo confuso baccanale mediatico e politico, e qualcosa di non convincente nelle proposte dell’azienda, negli accordi stipulati e nel confronto con e tra i sindacati. Allora, se questi dati sono veri, si schiude un altro universo di ragioni, di problemi e di domande, a cui finora si è mancato di dare risposte chiare.

Sono, infatti, proprio i dati che Marchionne presenta per giustificare la sua rivoluzione (conservatrice), che mettono lui e la sua politica aziendale in una posizione diversa, trasformandolo da grande accusatore a potenziale grande accusato. Naturalmente assieme ai managers che lo hanno preceduto e al Governo, questo di Berlusconi come quelli precedenti, tutti grandi elemosinieri, coi soldi dei contribuenti, della più grande, ora solo nell’immaginario collettivo, azienda italiana.

L’abisso che separa la produttività della Fiat italiana dalle altre aziende automobilistiche ma anche dalle stesse Fiat estere, non può essere spiegato con nessuno dei fattori che sono stati sollevati nel dibattito pubblico e sui quali dovrebbe abbattersi la normalizzazione padronale. Non c’entrano nulla (o quasi) la maggiore pausa di dieci o quindici minuti, l’assenteismo (di cui peraltro non abbiamo dati precisi), la mensa da spostare a fine turno, lo straordinario non contrattato, ecc. Tutte assieme queste questioni potrebbero al limite spiegare scostamenti assai più contenuti e, eventualmente risolte, risollevare la produttività di un dieci/quindici per cento.

L’abisso deve perciò essere spiegato con altri argomenti. E questi argomenti non chiamano in causa i lavoratori, se non come le più dirette e principali vittime. Chiamano in causa altri soggetti, quelli che abbiamo richiamato prima: i “padroni”, innanzitutto, e poi la politica e i Governi. Sono loro che devono rispondere, invece di accusare. Com’è potuto accadere che questa grande azienda, simbolo di un’intera nazione, giaccia ora tanto stremata, così svuotata, così totalmente obsoleta, e quindi impossibilitata a competere e del tutto fuori mercato? Di questa deriva di svuotamento e marginalizzazione, che certamente dura da molti anni, certamente da più di quelli che vedono al timone dell’azienda il manager italo-canadese, ma che non escludono neppure questo suo più recente periodo, sono loro (Lor Signori) che devono rispondere non i lavoratori.

Mi pare che si debba ragionare di più e meglio sui dati, traendone da essi le logiche conseguenze e ristabilendo le vere responsabilità in questa vicenda cruciale e significativa. Forse, per cercare di capire questo immane disastro e provare a porvi qualche rimedio, bisognerà spostare l’attenzione su altri problemi. Forse, ma assai più plausibilmente, sono mancati per tempo i necessari, ineludibili investimenti e ammodernamenti; forse, e assai più plausibilmente, ci sono state gravi insufficienze nell’organizzazione del lavoro e dei processi produttivi, forse si è mancato, come tutti dicono, di offrire al mercato modelli nuovi e più appetibili. Sarebbero quindi venuti meno proprio quei compiti che attengono, ed esclusivamente, ai managers (altro che eroi moderni!).

Sorgono responsabilità, quindi, che puntano il dito verso chi oggi con insolente arroganza, non mitigata neppure dalla esibita bonarietà del pulloverino, agita gli ammennicoli (che altro quelle cose – pause, ecc.- non sono, alla luce della gravità e dimensione del disastro presente!) e tacciono invece sulle questioni più sostanziali e sulle loro colpe, non ultima quella che oggi si sta consumando sotto i nostri occhi allibiti, di una messa in scena che vorrebbe far apparire come gran salvatore della patria e padre severo, che finalmente impone di prendere l’inevitabile medicina a chi invece, per conservatorismo si ostina ad allontanare da sé il calice amaro. E’ in atto, a mio avviso, una impostura che non possiamo consentire; un imbroglio anche della nostra intelligenza che non possiamo quietamente sopportare.

Quei dati, se non siamo presi noi stessi in una sorta di incantamento della nostra ragione, che ci fa apparire chiaro e corrispondente ai fatti reali, ciò che invece è solo una nostra eccitata astrazione, arrovesciano totalmente il discorso e il ruolo dei diversi soggetti in campo. E difficilmente, se quei dati non vengono puntualmente spiegati e analizzati, si può credere a una seria politica di risanamento e sviluppo; difficilmente, con tutto l’invocato principio di realtà che vogliamo (e dobbiamo), quella medicina può essere trangugiata.

D’altra parte, che ci possa essere un errore di fondo nel mio ragionamento, lo temo davvero. Infatti questo argomento, di un gap di produttività talmente spaventoso che non se ne possa dare principalmente la colpa agli operai, mi pare di non averlo riscontrato in nessuno dei commenti che ho letto, salvo nell’articolo come sempre pregevole di Scalfari di inizio anno, ma anche in questo pezzo non con l’evidenza e la centralità che a me pare meritare. Perfino, e questo sì che mi allarma, nelle dichiarazioni dello stesso leader della Fiom questo fatto viene taciuto. Il buon Landini, se mi posso permettere, invece di dire battute di dubbio effetto, buone per riempire di inutili polemiche i giornali, tipo la catena di montaggio come cura necessaria per certi politici, farebbe bene a portare la discussione e la battaglia sindacale sulle questioni di sostanza e sulle responsabilità di chi effettivamente ce l’ha.

Arturo Calaminici



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