26 luglio 2010

L’UTOPIA E LA DENSITÀ INFINITA


 

Sorridiamo. I milanesi non smettono mai di voler immaginare la propria personalissima città ideale. E’ forse dai tempi di Napoleone che hanno questo vizio, quando una sconfinata rotonda avrebbe dovuto circondare il Castello Sofrzesco per costituire un immenso centro civico e laico da contrapporsi agli spazi formatisi all’ombra della cattedrale. Una decentralizzazione delle funzioni amministrative per Milano città capitale della Repubblica Cisalpina.

Negli anni a cavallo tra il Diciottesimo e il Diciannovesimo secolo nasce quindi l’idea, poi tradita nelle intenzioni, del Foro Bonaparte: non quel forse banale semicerchio di abitazioni per la ricca borghesia post-unitaria che vediamo oggi, quanto piuttosto un ambiziosissimo progetto che intendeva dotare Milano degli spazi pubblici e delle strutture all’altezza delle proprie aspettative. Da allora, fino a oggi, si sono delineati due percorsi che destinati a divenire sempre più distanti uno dall’altro: da un lato le sconfinate capacità progettuali e immaginifiche di alcuni milanesi, dall’altro un debolissimo “sistema di supporto” in grado di portarle effettivamente a compimento. In breve, strutturalmente e storicamente, a Milano tra il “dire” e il “fare” non c’e’ di mezzo solo il mare ma piuttosto un oceano infinito e incolmabile.

Dai tempi del Foro Bonaparte, tuttavia, Milano è cresciuta ed è cambiata, seguendo anche in questo caso un processo per molti aspetti dicotomico.

Da una parte si assiste allo spettacolo dell’intelligentsia dell’architettura milanese, nomi celebri e ricorrenti ampliamente supportati dai mezzi di informazione impegnati in un dibattito high profile sulle possibili trasformazioni di alcune e sparute aree privilegiate e di rappresentanza della città. Una per tutte la piazza del Duomo, ridisegnata e riprogettata un numero imprecisato di volte ma che ha poi nei fatti finito col rivelarsi un campo sterile e improduttivo: spazi pubblici che sono cresciuti e hanno poi trovato una definizione autonoma in assenza di un disegno coerente.

Dall’altra si osserva invece il lavoro di una massa di professionisti quasi sconosciuti, che in silenzio ha finito poi col portare dignitosamente a compimento intere parti di Milano, come per esempio Città Studi. La metropoli tangibile e reale, le strade che oggi percorriamo, sono frutto di un lavorio quasi sotterraneo che si è sempre sottratto, o che non ha mai attirato l’attenzione dei dibattiti “high brow”.

Forse, per riprendere l’aforisma già citato, a Milano chi dice molto, finisce col fare poco e chi dice poco finisce col lavorare parecchio. Nulla o quasi nulla rimane dei grandi “progetti ideali” tanto cari alla storiografia delle idee, capisaldi della cultura progettuale e urbanistica milanese; una lunga lista costituita da racchette, autostrade urbane, centri direzionali, porti di mare: vicende ed eventi ampliamente riportati nei libri di testo, note ai più, ma forse poi irrilevanti rispetto ai processi che governano e hanno governato effettivamente la crescita e lo sviluppo di Milano.

A Milano esiste indubbiamente una tradizione progettuale dotata di strumenti produttivi non comuni, caratterizzata poi anche da una sconfinata ambizione, regolarmente tradita da un’incapacità’ strutturale di saper o voler tradurre l’idea in fatto concreto e concluso. Ed è appunto questo enorme divario tra il “saper pensare” e il “voler concludere” che rende il fenomeno ancora più evidente. Non solo: oggi, molti di noi rimangono oggi ancora irrimediabilmente legati all’idea che luoghi come l’impluvium del Palazzo della Triennale siano l’ombelico del mondo e la stanza dei bottoni: un’immagine triste e malinconica.

Così come vuole quindi il copione, la città continua a produrre visioni gigantesche, fantasmagoriche, immaginifiche, irreali e surreali di se stessa a rappresentare le proprie ambizioni inconfessate, mentre nella realtà dei fatti la maggior parte dei laureati negli ultimi vent’anni ha vissuto e sopravvive di sparute ristrutturazioni di appartamenti, quando va bene. Forse ci troviamo di fronte al variopinto epilogo della cultura architettonica milanese, confinata ed emarginata in spazi sempre più angusti: una cultura che ancora non ha imparato davvero a parlare l’inglese, che non ha studiato all’estero, che ama citare soprattutto se stessa piuttosto che accettare un qualsiasi confronto a scala planetaria.

Sorridiamo di fronte a questo “cortocircuito architettonico” bello e colorato, quanto assolutamente effimero, senza direzione e in fondo, tristemente, senza speranza.

 

Filippo Beltrami Gadola



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