23 gennaio 2024

RECENTI TRASFORMAZIONI DELL’URBANISTICA 

Pianificazione urbanistica versus iniziativa economica privata


Progetto senza titolo (13)

La lettera del direttore di ArcipelagoMilano del 17 gennaio L’urbanistica in tribunale nelle prime righe appunta la sua attenzione sulla questione degli immobili di elevata altezza, offrendo così lo spunto per un contributo di carattere generale sulle recenti trasformazioni dell’urbanistica anche se non è possibile derivarne, neanche indirettamente, alcuna conseguenza sulle specifiche vicende di attualità. 

Per illustrare il tema converrà partire dai fondamentali, proprio come proposto nella lettera del direttore a proposito della più soddisfacente definizione di urbanistica. 

La nuova edificazione privata genera fabbisogni di opere pubbliche complementari (le attrezzature tecniche e le attrezzature sociali necessarie per un ordinato sviluppo del territorio), ma genera anche esternalità negative per le aree circostanti quelle edificate e non solo per quelle immediatamente confinanti bensì per ambiti che possono essere ben più vasti. Questa è la ragione fondamentale per la quale non è sufficiente la disciplina del codice civile sui rapporti tra proprietari finitimi ma è necessario un intervento pubblico di regolazione dell’attività costruttiva attraverso la pianificazione urbanistica. 

Coerentemente con questa esigenza il ministro Bucalossi, già sindaco di Milano, promosse nel 1977 l’introduzione di una regola fondamentale poi trasfusa nel vigente testo unico dell’edilizia: in mancanza di piano regolatore la nuova edificazione può essere consentita solo entro il limite di densità di 0,03 metri cubi per metro quadro, un indice talmente basso da escludere esternalità negative di qualche rilievo. 

Se invece si vuole sfruttare più intensivamente il territorio occorre il piano urbanistico generale il quale deve valutare le esternalità. Il piano opera mediazioni e bilanciamenti tra interessi divergenti, esalta o deprime i valori delle aree e degli immobili esistenti, determina la futura qualità dell’abitato, soddisfa o delude importanti bisogni dei cittadini. Il piano, di competenza del consiglio comunale e deliberato previa decisione delle osservazioni presentate dagli interessati, è una scelta politica tecnicamente assistita, secondo una felice definizione proposta anni fa da Francesco Indovina. Col piano si assumono per la collettività decisioni importanti, non meno di quelle in materia fiscale o in tema di servizi sociali.

La legge urbanistica del 1942 stabiliva che il piano regolatore generale è attuato a mezzo di piani particolareggiati di esecuzione, ma non stabiliva espressamente che questi piani fossero obbligatori. Nell’esperienza pratica molti piani regolatori generali assunsero anche, almeno per una parte del territorio comunale, i contenuti propri dei piani particolareggiati, con la conseguenza che il piano poteva ricevere attuazione direttamente col rilascio della licenza edilizia (oggi permesso di costruire) senza l’intermediazione del piano particolareggiato. 

Nel tempo si è inoltre precisato che il piano regolatore generale può subordinare l’edificazione a un piano attuativo soltanto se si tratti di area non ancora urbanizzata, se occorra un raccordo con le preesistenze edilizie, se siano necessarie nuove opere di urbanizzazione, se il degrado preesistente richieda un nuovo disegno urbanistico. Nel gergo di settore si è quindi diffusa l’espressione lotto intercluso per indicare un’area non ancora costruita ma che sia l’unica all’interno di una zona integralmente edificata e dotata di tutte le opere di urbanizzazione. Se il progetto relativo al lotto intercluso è conforme alla pianificazione generale si può prescindere da un piano particolareggiato. 

Questa soluzione interpretativa è coerente col sistema: le valutazioni sulle esternalità sono state già compiute in modo completo e la pianificazione attuativa non potrebbe aggiungere elementi utili. Occorre tuttavia che in concreto ricorrano veramente le condizioni sopra riportate e comunque si tratta di una eccezione.

L’esigenza di specifiche valutazioni delle esternalità, aggiuntive rispetto a quelle già compiute col piano urbanistico generale, ha però trovato un punto fermo nel 1967 con una modifica legislativa promossa dal ministro Giacomo Mancini. L’art. 41-quinquies, aggiunto al testo originario della legge urbanistica del 1942, ha stabilito al sesto comma che (…) nelle zone in cui siano consentite costruzioni per volumi superiori a tre metri cubi per metro quadrato di area edificabile, ovvero siano consentite altezze superiori a metri 25, non possono essere realizzati edifici con volumi ed altezze superiori a detti limiti, se non previa approvazione di apposito piano particolareggiato o lottizzazione convenzionata estesi alla intera zona e contenenti la disposizione planivolumetrica degli edifici previsti nella zona stessa. Le forti esternalità generate da costruzioni che superano gli indici indicati richiedono in ogni caso un piano particolareggiato che deve essere esteso all’intera zona e deve recare la disposizione planivolumetrica degli edifici. In mancanza di piano particolareggiato la più intensa edificazione, pur prevista dal piano regolatore generale, è ridotta ai limiti di legge. 

Questa disposizione tuttavia è espressione di un orientamento politico in tema di gestione del territorio che, ben fermo per molti decenni, è stato contrastato proprio nella nostra Regione e in particolare a Milano e che ha trovato espressione innanzi tutto nel documento di inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Ricostruire la grande Milano, approvato dal consiglio comunale il 5 giugno 2000. 

Il nuovo orientamento politico, che ha animato anche la legge regionale del 2005 sul governo del territorio, si è ispirato all’attenuazione delle valutazioni sulle esternalità, all’ampio favore nei confronti della iniziativa economica privata nel settore dell’edilizia considerata come fattore importante di sviluppo economico e quindi da facilitare in tutti i modi, alla riduzione dei poteri pubblici di governo del territorio, alla rinuncia dell’amministrazione pubblica a porsi come guida politica dello sviluppo urbano per svolgere soltanto un ruolo di rimessa di fronte ai privati sostituendo parzialmente la pianificazione autoritativa tradizionale con l’urbanistica contrattata su iniziativa degli operatori (piani integrati di intervento e accordi di programma). La finalità primaria di assicurare il buon governo del territorio è stata messa in secondo piano e si è voluto attribuire al Comune un’altra e assai diversa funzione, dapprima ignota, quella di assicurare l’eguale distribuzione della rendita edilizia urbana ai proprietari delle aree attraverso un’invenzione della legge regionale, quella della perequazione urbanistica e dei diritti edificatori trasferibili, che non ha ancora trovato una compiuta sistemazione nella legge statale. 

Sul piano nazionale il nuovo orientamento politico sopra brevemente riassunto ha trovato espressione nel cosiddetto piano-casa, avviato in sede nazionale il 1° aprile 2009, in base al quale le Regioni hanno consentito temporaneamente interventi edilizi in deroga alla pianificazione.

In questo nuovo contesto culturale e politico ben si comprende l’impaccio costituito dall’art. 41-quinquies, sesto comma, della legge urbanistica, non omogeneo con il nuovo orientamento e col proposito di densificare la città con minore consumo di suolo e quindi con lo sviluppo in altezza degli edifici ben oltre i 25 metri. Il piano particolareggiato infatti non è un semplice documento tecnico ma è deliberato dal consiglio comunale previa partecipazione degli interessati i quali possono presentare opposizioni e osservazioni e quindi ha la stessa natura del piano generale. E non è certo un caso che, sempre nel nuovo clima teso a depotenziare la pianificazione, un decreto-legge del 2011 abbia spostato la competenza all’approvazione dei piani particolareggiati (che non comportino variazioni del piano generale) dal consiglio alla giunta comunale, in modo da escludere il confronto con le opposizioni consiliari. 

Se ci si mette nella prospettiva del nuovo orientamento sopra descritto si potrà dire, con giudizio politico, che la disposizione di legge sull’obbligo della pianificazione esecutiva è desueta. Però il sesto comma dell’art. 41-quinquies della legge urbanistica non è stato abrogato espressamente e non è compreso nell’elenco, posto dalla legge regionale 12/2005 (art. 103), di disposizioni statali non più applicabili perché sostituite dalla legge stessa. 

L’eccezione del lotto intercluso non appare estensibile in via interpretativa, per due ragioni. Quella eccezione si riferisce a obbligo di pianificazione esecutiva previsto dal piano regolatore generale, mentre qui l’obbligo è previsto direttamente dalla legge, senza eccezione alcuna. Inoltre si tratterebbe di un’estensione illogica, contrastante con la finalità della disposizione. Le esternalità negative di nuove costruzioni così alte e dense sono maggiori proprio nelle aree già previamente edificate, e quindi, al contrario, l’eccezione potrebbe razionalmente giustificarsi (sempre che espressamente prevista dalla legge) solo in aree non urbanizzate e destinate a rimanere tali. Una isolata sentenza del 2010 del Tribunale amministrativo regionale della Lombardia, non appellata in Consiglio di Stato, non supera queste due critiche. 

Molti altri interrogativi possono essere posti, ma si tratta di questioni che conviene lasciare all’approfondimento dei giuristi.

Sul piano generale proprio di questo contributo è invece opportuno ricordare che, con riferimento al piano casa del 2009, la Corte costituzionale ha insistito sull’esigenza di una regolamentazione organica e razionale dell’assetto del territorio e ha sottolineato l’interesse all’ordinato sviluppo edilizio proprio della pianificazione urbanistica (sentenze 229/2022 e 90/2023). Depotenziare la pianificazione favorisce l’iniziativa economica privata nel settore delle costruzioni ma non favorisce l’ordinato sviluppo edilizio.

Alberto Roccella

 



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