14 giugno 2010

VIA PAOLO SARPI, UNA CHINATOWN MAI NATA?


 

Alcune doverose premesse. Il tema di quest’articolo è piuttosto complesso e non ho la pretesa di esaurirlo in poche righe. Inoltre non sono un sociologo, né un antropologo – mi occupo di architettura e urbanistica -, quindi cercherò di muovermi con cautela in un territorio non del tutto mio. E chiariamo fin da subito che il mio interesse primario è quello di porre questioni, sollevare interrogativi. Non ho risposte precostituite o ideologiche, e lascio ben volentieri ad altri questo scomodo ruolo. Nei primi mesi del 2011 dovrebbe terminare la pedonalizzazione di via Paolo Sarpi, una delle poche vie milanesi con nome e cognome. Avete mai sentito qualcuno dire: “Ci vediamo domani in via Sarpi”? Io no. Nell’immaginario collettivo dei milanesi, ma non solo loro, via Paolo Sarpi è identificata come la Chinatown di Milano, pur essendo molto differente dalle altre Chinatown sparse per il mondo.

I primi cinesi arrivano a Milano attorno al 1920 e si stabiliscono in una zona allora periferica, tra via Canonica e via P. Sarpi, insediando le loro attività legate al tessile e alla seta (“Clavatte, due lile!”, questo lo slogan di vendita degli ambulanti), nei cortili interni tra queste due vie. È in quegli anni che la zona prende il nome di “quartier generale dei cinesi”. L’espansione continua nel secondo dopoguerra con la sostituzione dei dettaglianti italiani con i grossisti cinesi, che pagano anche grosse cifre per gli immobili (e la domanda sulla provenienza di quei capitali mi pare legittima). Gli attriti e i dissidi tra i residenti, per la maggior parte italiani, e i commercianti cinesi (sfociati nei disordini del 12 aprile 2007) derivano in gran parte dall’incompatibilità tra le necessità dei grossisti (orari di carico e scarico, i carrellini, etc.) e le comprensibili esigenze di tranquillità e di qualità della vita dei residenti.

La proposta di delocalizzazione delle attività all’ingrosso e la pedonalizzazione di via P. Sarpi dovrebbero portare a una normalizzazione dei problemi, ma anche alla dissoluzione della Chinatown meneghina, proprio ora che inizia a essere inserita anche nelle guide turistiche internazionali. Ma è corretto chiamarla Chinatown? Certo per comodità di discorso continueremo a chiamarla così, ma rispetto alle Chinatown sorte nel resto del mondo e un po’ tutte uguali tra loro, quella di Milano appare molto diversa, peculiare, milanese appunto. Una Chinatown (letteralmente “città cinese”) in molte grandi città americane, europee, ma anche asiatiche, è un quartiere dove nel corso del tempo a partire dalla metà dell’ottocento si è insediata una comunità cinese, trasformando quel quartiere in un pezzetto di Cina, ovviamente mediato dalle caratteristiche morfologiche e identitarie della città ospitante e diventando per questo spesse volte un’attrazione commerciale e turistica.

Tra le Chinatown più famose ricordiamo quella di San Francisco fondata a partire dal 1850 ai tempi della Corsa all’oro, quelle di New York (ben 6, tra cui quella di Manhattan), che ospitano la comunità cinese più numerosa fuori dall’Asia e quelle europee come Londra e Liverpool (la più antica del vecchio continente, fondata all’inizio dell’Ottocento quando la città comincia a importare cotone e seta da Shanghai). Queste Chinatown presentano alcune caratteristiche che le accomunano: i residenti sono (quasi) tutti cinesi; le attività commerciali sono al dettaglio, caratteristiche e frequentate da turisti (ristoranti cinesi, pescherie cinesi, negozi di oggettistica, etc…); vi è spesso la presenza di elementi architettonici che segnalano l’ingresso nel quartiere (porte con draghi o leoni, colonne laccate di rosso) e il tessuto edilizio, pur rimanendo quello della città ospitante, appare modificato (con semplici operazioni di coloritura delle facciate, scritte decorazioni o insegne) a simboleggiare una differente identità locale.

Invece in via P. Sarpi, le case sono quelle della vecchia Milano, ancora in giallo lombardo con i loro cortili e ballatoi, il commercio all’ingrosso è sostanzialmente monotematico, l’unico vero momento suggestivo è durante il capodanno cinese quando una coppia di dragoni sfila per la via. Non è un po’ poco per parlare di Chinatown? In attesa di trovare una risposta, provo a porre altre domande.

Cos’è Chinatown per Milano? Un ghetto etnico? No, perché i cinesi lavorano lì, ma risiedono in altre zone. Un fenomeno di folklore buono per attirare i turisti? Un luogo d’identità e tradizione diverse da quelle nazionali? Una zona franca dove esercitare attività commerciali molto –troppo?- concorrenziali? D’altra parte è difficile parlare d’integrazione vista la storia e la cronaca recente. E se non c’è integrazione c’è il rischio di creare un terreno fertile per criminalità e sfruttamento.

Se guardiamo alle Chinatown estere possiamo dire qualcosa di più. Queste sono paradigmatiche dei limiti del multiculturalismo, che al massimo crea nelle metropoli uno zoning etnico (qui i cinesi, lì gli ispanici, più avanti gli africani) ma non fa né integrazione né melting pot come va di moda dire ora. Nel caso delle Chinatown forse la cosa è voluta. La politica della Cina sembra volta a una sorta di colonizzazione sottile: disperdere i cittadini cinesi in tutto il mondo, sostenerli nella creazione di numerose città nelle città, comunità concentrate e compatte, in grado di attuare gradualmente una pressione e un’influenza sui governi degli stati ospitanti.

Tornando a Milano va rilevato che nel caso delle altre nazionalità un fenomeno così forte dal punto di vista identitario tanto da avere ricadute urbanistiche è molto raro, se non del tutto assente. Ma non per questo il livello d’integrazione appare più elevato. Sembra di assistere a una riproposizione di quello che è accaduto al tempo dei fenomeni migratori dal mezzogiorno d’Italia subito dopo la guerra. Vedremo se gli esiti saranno i medesimi.

 

Pietro Cafiero

 

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Le fotografie di Via Paolo Sarpi sono di: Patrick Toomey-Neri e Marco Menghi



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