2 maggio 2023
LA CRISI DELLA NATALITÀ
Gli immigrati possono essere una soluzione?
Il fatto è che il benessere finalmente conquistato in questi ultimi settant’anni, i migliori, forse, della storia della specie, lo abbiamo voluto tranquillamente godere. Era ora, d’altronde! I miei nonni paterni hanno fatto, dagli inizi del ‘900, 13 figli, destinati alcuni a mortalità precoce, alcuni ad essere afferrati dalla Seconda guerra mondiale o ad emigrare, a lavorare nelle miniere o nei campi o nell’edilizia; le femmine avviate ai campi e alle fabbriche tessili.
I 9 sopravvissuti hanno generato mediamente, tra il 1930 e il 1950, 2,3 figli ciascuno. Noi boomer, figli di quei figli, ne abbiamo generato, a nostra volta, solo 2.2. E i nostri figli? Dal 1976 il tasso di natalità per donna è sceso sotto i 2.1 Oggi: 1,18 per le italiane e 1,87 per le straniere (era 2,53 nel 2008); età media del parto nel 2021 è di 32,4 anni.
Non c’è stata, dunque, alle spalle, nessun complotto di “un’élite con interessi giganteschi, che non vuole che si facciano più figli”, come afferma il Card. Bagnasco. E neppure una congiura di forze oscure demo-pluto-giudaiche, che progettano la “sostituzione etnica” degli Italiani, come ha ripetuto da ultimo il Ministro Lollobrigida. Gli Italiani hanno pensato da soli a creare il vuoto demografico.
Si può riempire?
I regimi autoritari dispongono di ricette semplici in materia di “politiche della vita”. Il 13 febbraio 1927 il fascismo istituì la tassa sui celibi, di età compresa tra i 25 e i 65 anni.
Il regime cinese creò nel 1981 la “Commissione di Stato per la Pianificazione Familiare” per far rispettare la regola del figlio unico, introdotta nel 1979 e mossa dalla preoccupazione malthusiana di una crescita esponenziale della popolazione. È stata abolita solo nel 2013, avendo come sottoprodotto la tendenza opposta.
Le ricette non mancano neppure ai regimi democratici. La Francia e la Germania ne sono un esempio. Il Ministro Giorgetti ha proposto recentemente “niente tasse” per chi genera dai due figli in su. Non senza malumori e distinguo a sinistra.
Sì, si possono fare politiche della vita ma la politica non sposterà molto, se la società civile italiana non arriva all’altezza intellettuale e morale della posta in gioco della demografia.
Che è la nostra civiltà. Negli anni ’50 Guido Piovene in “Viaggio in Italia”, una storica trasmissione TV, poi trasformata in libro scriveva: “La civiltà italiana oggi è in gran parte endemica e inconsapevole, l’inciviltà inconsapevole e attiva”… Ecco, non esiste la coscienza acuta e allarmata di questo livello della sfida, perché non esiste autocoscienza storica del Paese.
Il basso livello di istruzione, di coscienza storica, di educazione, di civilizzazione degli Italiani impedisce loro di apprezzare i tesori e i giacimenti di cui sono eredi e che devono obbligatoriamente trasmettere a qualcuno, visto che non lo possono portare con sé nella tomba come i Faraoni. A chi trasmettere il Paese? Ai nostri figli, naturalmente! Se li facessimo…
A chi lasceremo, dunque, i giacimenti della nostra storia civile e culturale? A chi affideremo “il candido manto di novelle chiese”, di cui scriveva Roberto il Glabro attorno all’Anno Mille? A chi la nostra lingua?
Una risposta possibile: agli immigrati.
Che si stanno rovesciando dal vaso troppo pieno dell’Africa in quello troppo vuoto dell’Europa.
Perché i cinque milioni di immigrati regolari e quelli che si aggiungeranno, i cui figli hanno incominciato a frequentare le nostre scuole e a parlare la nostra lingua, siano in grado di portare il carico delle nostre tradizioni e dei nostri tesori, occorre stabilire alcune condizioni di base.
La prima è una condizione culturale: gli Italiani prendano atto che i movimenti migratori sono un fenomeno strutturale e che, pertanto, deve essere governato, selezionando rigorosamente chi arriva: salvare tutti in mare, accogliere stabilmente solo coloro che riempiono i nostri i vuoti socio-economici e che vogliano integrarsi.
La seconda: occorre integrare in profondità gli immigrati, trattando i loro figli come i nostri, attraverso l’educazione, l’istruzione, il lavoro. Spingerli fuori, costringerli a nascondersi negli interstizi illegali della società e dell’economia – vedi abolizione della “protezione speciale” – significa aumentare la dis/integrazione loro e l’insicurezza nostra.
La realizzazione di queste due condizioni implica un rovesciamento delle politiche immigratorie fin qui realizzate dai governi fin dagli anni ’90: ondate disordinate di immigrazione e sanatorie.
Le politiche all’italiana della deroga, del rinvio, della sanatoria sono fallite. Nelle ultime elezioni Salvini e Meloni hanno raccolto i voti degli Italiani in nome della difesa dell’identità italiana e della sicurezza. È ora che lo facciano, attraverso politiche demografiche e politiche razionali dell’immigrazione. Basterà a far comprendere agli Italiani che anche noi siamo ormai una “democrazia migratoria”? Forse…
Giovanni Cominelli
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