8 marzo 2010

PERCHÉ MI CANDIDO


Le ragioni della mia candidatura sono assai semplici. Dare seguito a un’esperienza che può consentirmi di dare ancora qualche contributo. Dopo 5 anni passati all’interno della politica, per me una novità assoluta, l’ho capita davvero e più da vicino; ho cioè conosciuto i modi, le forme, i riti con cui procede nei due ambiti in cui essa principalmente si manifesta: i partiti e le istituzioni. Ho evidentemente potuto capire meglio come questi soggetti – i partiti e le istituzioni – condizionino pesantemente le possibilità della politica di avere il suo stretto rapporto con la società cui essa deve, o meglio dovrebbe, costantemente riferirsi.

Quello che in realtà succede all’interno dei partiti e delle istituzioni è condizionato da logiche specifiche che raramente ha direttamente a che fare con la soluzione dei veri problemi sociali: l’interesse collettivo. Per quanto riguarda i partiti si tratta di logiche che riguardano i rapporti di potere tra di loro (sia tra maggioranza e minoranza che all’interno degli schieramenti) e tra i diversi gruppi attivi al loro interno, la loro visibilità mediatica e, spesso, quella dei singoli, la programmazione, individuale e di gruppo, delle carriere, i minuti rapporti con i territori di provenienza, ad altro ancora.

Per quanto riguarda le istituzioni, gli attuali meccanismi di funzionamento hanno pesantemente compromesso le possibilità di un democratico confronto (l’essenza della democrazia) tra maggioranza e minoranza, che difficilmente arriva a sintesi “nell’interesse comune”, dato lo strapotere degli organismi esecutivi che operano indisturbati nella debolezza o nell’assenza di luoghi di verifica e controllo: sono rari e marginali i casi in cui le conclusioni non avvengano secondo l’espressione della “dittatura della maggioranza”. Tutto ciò mortifica fortemente il ruolo di “eletto”, sia pure in modi e forme diverse per chi si trova nella maggioranza o nella minoranza; essendo i primi, tranne casi rarissimi, null’altro che esecutori di espressioni di voto secondo gli ordini di scuderia (in 5 anni di alcuni non mi è capitato di sentire la voce), e i secondi costantemente frustrati nel loro impegno di formulare comunque proposte correttive, se non di alternativa, di fatto mai pregiudizialmente accolte da una maggioranza che solo nella sua blindatura è stata in grado di mantenere gli equilibri spartitori, che hanno consentito di non far emergere le divisioni interne.

Tutto questo mi ha portato alla matura convinzione dell’inesorabile solidità di tali meccanismi e di come sia difficilmente ipotizzabile che essi possano essere modificati “dall’esterno”. Ritengo che sia accaduto perché la politica è stata lasciata sola a se stessa e perché si sono sottovalutate le sue straordinarie capacità di auto riprodursi e di erigere intorno a sé steccati, il cui spessore si è via via ingigantito quando potere mediatico di massa e potere politico si sono saldati. In Regione Lombardia in particolare è potuto accadere, dove la forza della maggioranza è stata inversamente proporzionale alla debolezza della minoranza.

Non ho dubbio che con la nascita di questo PD si sia persa una straordinaria occasione di creare in Lombardia una nuova forza politica riformista avanzata: una vera autonomia del PD della Lombardia, in una logica di partito effettivamente federale, avrebbe potuto consentire di far crescere e consolidare il partito nuovo in forme, modi, proposte politiche effettivamente connessi alla specificità dei nostri territori e al di fuori delle incertezze e dei tentennamenti della politica romana e, soprattutto, dei suoi pesanti, ma sempre accettati, condizionamenti.

Anche all’interno del PD, i condizionamenti storici dei modi di essere dei due partiti fondatori sono stati assai più pesanti di quanto inizialmente non si pensasse, impedendo molto dell’innovazione indispensabile e da moltissimi auspicata. In realtà anche il PD, a parte la fase iniziale caratterizzata dall'”entusiasmo dello stato nascente”, è stato lasciato solo a se stesso, o meglio nelle mani esclusive dei fondatori che non se la sono sentita di accogliere dispiegatamente chi veniva da altre esperienze o da nessuna esperienza. Per altro anche i due partiti fondatori (sostanzialmente costituiti da amministratori locali o personale di partito) si sono via via articolati in una pluralità di posizioni e gruppi che hanno purtroppo condotto più alla ricerca e alla conservazione dei loro reciproci equilibri che non a sintesi innovative. La mediazione tra i gruppi ha, di fatto, prevalso sulla definizione dell’identità.

Penso che un tale quadro sia, a questo punto, destinato a modificarsi e che nella prossima legislatura regionale le ragioni di un’alternativa potranno irrobustirsi per gli effetti delle conseguenze di una crisi verso la quale il formigonismo non ha saputo dare indicazioni di futuro, né tanto meno prepararlo, stretto com’è stato all’interno di una “normale amministrazione”, che, attraverso organismi separati (le società “partecipate” esterne) e democrazia compromessa, null’altro ha fatto se non consolidare gli intrecci pesanti con i suoi tradizionali gruppi di potere di riferimento (ecclesiali, corporativi, connessi alle rendite finanziarie e immobiliari). Ciò in spregio evidente di una normale concezione di libero mercato e di concorrenza, e in completo soffocamento o marginalizzazione dei requisiti di merito.

Le potenzialità della Regione, le sue enormi risorse, per molti versi uniche e originali, consentono ampiamente di considerare tuttora possibile che la Regione abbia verso il paese e il mondo globale un ruolo di effettiva capacità di proposta destinata alle generazioni future, in modo tale da ritornare a essere uno dei più importanti motori d’Europa, cosa che non è più come i dati ampiamente dimostrano. Si tratta innanzitutto di rimettere il valore del lavoro e dell’impresa al centro della politica avendo la capacità di proporre politiche industriali capaci di considerare effettivamente l’articolazione, le specificità e le qualità della struttura industriale dei nostri territori. L’identità industriale della regione e del Paese è la prima identità da ricostruire. Da qui passa qualsiasi ipotesi di ripresa dello sviluppo.

I problemi della qualità dell’aria e dell’ambiente, dell’uso del suolo, delle infrastrutture, dei trasporti, di servizi effettivamente a misura di diritti universali, della coesione sociale, dell’immigrazione e della sicurezza, dell’organizzazione della cultura, dell’inquinamento mafioso, sono tra loro intrecciati e hanno bisogno di un progetto di futuro che ogni giorno di più appare impossibile sia tracciato dalla maggioranza che oggi governa il paese e la regione. Malgrado i limiti e gli errori dell’esperienza sin qui condotta, non è oggi ipotizzabile la nascita di ulteriori nuove forze politica capaci di guidare uno schieramento riformista avanzato; personalmente ritengo ancora il PD la forza decisiva per questo percorso.

Le elezioni regionali col meccanismo della preferenza consentono la scelta delle persone. Certamente all’interno dei gruppi organizzati ci sono gli elettori abituati a esprimere un voto di preferenza a e così tutelano il proprio gruppo. Anche per questo la politica si auto riproduce e non si innova. Mi auguro che esprimano la preferenza anche molti cittadini che non fanno capo a quei gruppi.

I miei slogan elettorali sono “DENTRO LA POLITICA, FUORI DALLE CORRENTI” e “PIU’ DEMOCRATICI, MENO TIMIDEZZA”, declinati sui 4 temi del LAVORO, della LAICITA’, della LEGALITA’, della LOMBARDIA.

Senza la preferenza di molti, difficile arrivare alla cima di una strada che sembra in salita.

Riccardo Sarfatti


 



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