15 febbraio 2010

IL MERCATO DEI MANAGERS. IL PREZZO È GIUSTO?


La retribuzione dei manager ha rappresentato in questi ultimi mesi un tema quanto mai caldo, continuamente menzionato dai leader politici, dibattuto nelle prime pagine dei giornali. Tutto ciò è solo apparentemente strano; la retribuzione dei manager in realtà tocca (per confronto) tutti noi, è un tema semanticamente “denso” e possiede un alto valore narrativo ed evocativo (denaro eguale potere, ricchezza, sicurezza), e ben si presta per la sua semplicità a essere compreso dall’opinione pubblica. Quanto è accaduto nei giorni scorsi al Senato della Repubblica ne è l’ennesima riprova: mentre è in discussione la Ddl comunitaria sulle retribuzioni dei manager pubblici, è approvato un subemendamento del senatore Lannutti che stabilisce che gli stipendi dei manager di banche e società quotate non possano superare quelli dei parlamentari; viene inoltre stabilito che ai manager bancari non possono essere attribuite stock options.

E’ interessante osservare che questo subemendamento viene approvato con il pieno appoggio del relatore della Ddl, che il ministro competente esprime la propria soddisfazione per la variazione introdotta, e che pochi giorni dopo numerosi esponenti politici dichiarano (con apprezzabile linearità di comportamento) questa norma profondamente sbagliata, assicurandone la cancellazione nel corso del successivo passaggio alla Camera dei Deputati. E’ ancora più interessante osservare che tutti i media, di qualsivoglia orientamento politico, hanno dato ampio risalto all’accaduto tralasciando di menzionare il fatto (sicuramente molto più importante) che una volta approvata dal parlamento la Ddl nella versione originaria, l’Italia sarà tra i primi paesi al mondo a disporre di un sistema di norme (mutuate dalle indicazioni del Financial Stability Board” guidato da Mario Draghi) finalizzato a rendere i sistemi di remunerazione dei manager più trasparenti e bilanciati e dimostrando così di aver tratto un vero insegnamento dalla crisi.

C’è da dire che certe cose non accadono solo in Italia: il “Wall Street Journal” del 5 febbraio scorso riportava che il presidente Obama, nel discorso annuale sullo stato dell’Unione, ha” denunciato i manager che ricompensano se stessi nonostante le loro debacle e i banchieri che mettono il resto del mondo a rischio per i propri guadagni. Il presidente ha richiesto inoltre maggiori tasse sulle aziende petrolifere, sui gestori dei fondi d’investimento e su tutti coloro che guadagnano più di 250.000$ l’anno”. Molto opportunamente, l’intervento del presidente Obama era collocato all’interno di un articolo che intitolava: “A Short History of American Populism”. Potremmo continuare a lungo con parecchi altri fatti recenti e meno recenti che dimostrano come questo tema abbia cessato ormai da tempo di essere oggetto di un dibattito serio e meditato, per precipitare invece in un vortice di populismo, demagogia, strumentalizzazione mediatica.

Urge quindi, anche in questo caso, tornare ai “basics” ponendosi alcune semplici domande; ad esempio possiamo chiederci: “Un manager che prende 3 milioni di euro l’anno vale davvero tanto denaro? Come può accedere che nella nostra società ci siano aziende che reputano conveniente pagare simili cifre a loro dipendenti?”. La più immediata risposta, perfettamente coerente con lo spirito dei tempi attuali, è che è il mercato a stabilire queste retribuzioni, e che quello che fa il mercato è giusto per definizione. Siamo proprio sicuri che sia così? Forse la realtà è un po’ più complicata. Il dibattito sulle retribuzioni risale alle origini degli studi di economia; voglio risparmiare in questa sede ai lettori un lungo excursus storico, che ci porterebbe a parlare della Legge Bronzea dei salari, dei sistemi di cottimo di Frederick Winslow Taylor, delle ricette (fin troppo citate in questi ultimi mesi) di John Maynard Keynes, della politica dei redditi negli anni del Centrosinistra italiano. Quello che possiamo dire con riferimento all’oggi è che il mercato del lavoro manageriale per i ruoli di maggiore responsabilità è ben lungi dal trovarsi in una condizione di concorrenza perfetta (informazione perfetta a tutti gli attori e completa omogeneità del bene che viene scambiato); al contrario, il numero degli attori che compone questo mercato (sia dal lato dell’offerta, i manager, sia dal lato della domanda, le aziende) è estremamente limitato: quante possono essere in Italia le retribuzioni di valore pari a tre milioni, visto che di questo valore stiamo parlando? Sicuramente molte poche, e con volumi di scambi che si contano sulle dita di una mano e sicuramente non tali da giustificare una ipotetica retribuzione di equilibrio. Il sistema, inoltre, è caratterizzato dalla presenza di numerose “frizioni”, quali le asimmetrie informative tra datore di lavoro e manager, la presenza di “relazioni di agenzia” e via dicendo che inseriscono numerosi elementi qualitativi nello scambio tra prestazione lavorativa e retribuzione. Le teorie classiche del mercato del lavoro quindi in questo caso non ci aiutano a rispondere al quesito che ci siamo posti.

Forse un maggiore aiuto ci può provenire dall’economia comportamentale, una disciplina relativamente recente che sta rapidamente prendendo terreno nel mondo dell’accademia e del management.

L’economia comportamentale, tra gli altri, pone una particolare enfasi sui processi di costruzione delle aspettative e sui meccanismi di formazione dei prezzi. Secondo questa impostazione, una prestazione lavorativa di alto prezzo può essere percepita come una garanzia “ex ante” di risultato: in altri termini, un manager che richiede molto denaro si propone come “bravo” manager, e colui che lo paga può legittimamente sperare che questa sua bravura continui anche in futuro e produca significativi benefici economici all’azienda e al manager stesso.

Gli americani, con la loro consueta sagacia sui processi di management, hanno prodotto un’originale e provocatoria concettualizzazione: questo modello passa sotto il nome di “effetto di Lake Wobegan”, dal nome di una ridente località del Minnesota dove tutti i bambini sono “al di sopra della media” (!). Lo stesso può dirsi avvenire per i capi azienda (CEO nel linguaggio americano): nessuna azienda infatti è (razionalmente) disponibile ad ammettere che il proprio CEO debba essere retribuito sotto la media (sarebbe come ammettere che il proprio è meno bravo della media dei suoi pari); l’azienda pertanto si pone l’obiettivo di posizionare il pacchetto retributivo sui valori medi di mercato o, ancor meglio, sopra la media di un gruppo di aziende con caratteristiche simili.

E’ abbastanza intuitivo affermare che le aziende tendono a rendere pubblica la loro attitudine a pagare bene i propri collaboratori e in particolare il proprio capo azienda. Questo è un elemento particolarmente importante, perché introduce l’idea che pagare bene non sia un fatto ininfluente ai fini di come l’azienda viene vista dal mercato; in realtà il gioco è ben più complesso e dall’aumento di retribuzione traggono beneficio sia il manager sia l’azienda stessa.

Nella realtà dei fatti, non tutti i CEO possono essere pagati al di sopra della media di mercato (ovviamente); quello che succede è che ogni anno buona parte dei Board dichiarino che il posizionamento della loro azienda sul mercato delle retribuzioni è nella metà superiore del mercato stesso: questo fa sì che quando l’azienda A assegna al proprio capo azienda un incremento retributivo, presto o tardi anche il capo dell’azienda B ne riceva uno, anche se l’azienda B non versa in floride condizioni; questo secondo aumento sposta ulteriormente verso l’alto i valori medi di mercato, e così via. Si viene a creare quindi una spirale che si autoalimenta, in questo modo si perde altresì la connessione logica tra posizionamento dell’azienda sul mercato delle retribuzioni e andamento di mercato dell’azienda, rafforzando la percezione d’iniquità presso la pubblica opinione.

Alla base del fenomeno che abbiamo descritto i ricercatori pongono tre assumptions: la prima è che deve sussistere un’asimmetria informativa rispetto alla capacità del manager di creare valore per l’azienda (in altre parole, l’azienda non è pienamente in grado di valutare il proprio manager da questo punto di vista; a favore del manager gioca anche il suo potere contrattuale); secondariamente, si parte dal principio che il valore del pacchetto retributivo attribuito al top manager trasferisca al mondo esterno un’informazione sulla capacità del manager di creare valore per l’azienda (e che quindi ambedue traggono vantaggio da una retribuzione più alta); in terzo luogo, l’azienda desidera influenzare sistematicamente in modo a sé favorevole il mondo esterno (nell’aspettativa che i corsi di borsa riproducano questa positività).

A partire da questi elementi i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che le retribuzioni “di mercato” non esistono, e che anzi le aziende tendono a incrementare le retribuzioni dei loro top manager con il chiaro obiettivo di influenzare la percezione del valore dell’azienda da parte del mercato.

Su questo percorso di ricerca si colloca un interessante articolo comparso sul Financial Times di qualche mese fa a firma di Roger Martin, l’articolista, cavalcando a sua volta il risentimento per le eccessive retribuzioni dei manager, afferma che i sistemi di ricompensa del management sono collegati al “mercato delle aspettative”, che ha come indicatore ultimo il valore di mercato delle azioni (questo mercato, quello azionario, si distingue secondo l’autore dal mercato “reale” dei beni, che è quello dove le aziende competono ogni giorno con i loro prodotti). Martin spiega questo fenomeno facendo un parallelo con il mondo dello sport americano. A differenza dei calciatori in USA, ai manager viene consentito di fare “scommesse” sul loro stesso risultato; i loro incentivi non sono basati sul punteggio che ottengono sul campo di gioco, ma derivano da quello che accade sul mercato delle aspettative. Questo mercato viene influenzato annunciando piani industriali strabilianti, programmi di sviluppo molto ambiziosi: il valore del titolo dell’azienda sul mercato sale: con questo sale anche l’aspettativa della comunità finanziaria nei confronti del manager e conseguentemente la sua retribuzione. Tutto questo crea un pericoloso circolo vizioso: i manager sono consapevoli che la loro retribuzione dipende dalla crescita delle aspettative, come pure del fatto che il miglioramento delle performance aziendale è il sistema più difficile e lento per ottenere questo risultato; molto meglio mettere in atto azioni che diano l’apparenza di un rapido sviluppo o utilizzare artifici contabili che migliorino (solo esteriormente) i risultati. Da ciò conseguono l’elevata volatilità dei mercati e le modeste performance reali (non finanziare) delle aziende.

L’articolista conclude che sia ora di cambiare regime: gli executives devono rispondere ai loro azionisti solo su obiettivi del “mercato reale”. Analogamente deve essere messa la parola fine sull’incentivazione basata sulle stock option. Torniamo adesso con i piedi per terra e vediamo cosa accade nel nostro Paese in tema di retribuzioni manageriali, utilizzando alcuni dati significativi della banca dati delle Indagini Retributive di Hay Group (anno 2009). I dati di quest’anno mostrano che l’Italia, nonostante indubbi miglioramenti negli ultimi anni in direzione della “meritocrazia”, continua a mettere in atto politiche retributive incoerenti con la propria vocazione di grande realtà economica avanzata; alcuni indicatori sono infatti disarmanti: nel 2009, le famiglie professionali censite nel campione di Hay Group che hanno ricevuto minori incrementi retributivi discrezionali sono state quelle della Ricerca e Sviluppo e della Qualità, mentre le più premiate sono state l’Amministrazione, Finanza, Controllo, la Produzione, il Marketing. Ora, è assolutamente vero che in tempi difficili si vogliano premiare le famiglie professionali “mainstream”, è altrettanto vero però che questa è una scelta miope, di breve periodo, che pregiudica sviluppi futuri e non asseconda il miglioramento della produttività, che è il vero problema del nostro Paese.

Analogamente, i livelli retributivi d’ingresso dei neolaureati continuano a essere inferiori, a parità di condizioni, a quello praticati in altri Paesi, la stessa dinamica si ha per il rapporto tra retribuzione dei neolaureati e quella media di dirigenti e quadri, con differenziali che continuano ad ampliarsi negli anni; e potremmo continuare. Con questo non vogliamo sostenere che questa è la causa della fuga dei cervelli dall’Italia; ci limitiamo a dire che dal confronto internazionale non usciamo bene su questo e su altri punti.

Una considerazione conclusiva. Come emerge da quest’analisi, credo di essere riuscito a dimostrare che la retribuzione del manager non siano un fatto “oggettivo”, ma si presentino come un sistema complesso sul quale influiscono fenomeni dell’economia reale, dinamiche finanziarie, variabili”soft” spesso amplificate dai media, dialettiche negoziali, processi di potere. Al contrario, la polemica sugli stratosferici pacchetti retributivi dei manager, che è quella nel cono di luce dei media, rischia di nascondere i veri problemi delle politiche retributive praticate nel nostro Paese, che non sono coerenti con l’obiettivo di migliorare la produttività a tutti i livelli e quindi la competitività del nostro sistema economico. È su quest’obiettivo che bisogna puntare per fare un vero passo in avanti.

 

Francesco Miggiani



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