29 maggio 2018

LA CITTÀ METROPOLITANA DI MILANO

C'è ma non si rispecchia nelle istituzioni


Le città metropolitane sono state istituite per legge nel ‘91 ed inserite nella Costituzione nel 2003. Ciononostante esse sono divenute di “stringente attualità” soltanto nel 2011 grazie (ma è triste dirlo) al decreto legge sulla spending review del governo Monti, ossia ad un provvedimento restrittivo dei costi della politica che, tra le altre cose, ha abolito le Province e quindi ha aperto loro la strada. Strada che è potuta sembrare, almeno all’inizio, abbastanza promettente. La legge Del Rio che ne prevedeva la costituzione, infatti, rovesciava l’impostazione seguita sino a quel momento per la loro istituzione, passando dall’dea che esse potessero venire fatte “con lo stampino” e poi calate dall’alto (che era poi la vera ragione per cui non sono mai state fatte) a quella di sollecitarne la nascita dal basso e “su misura”.

Borghini_20Ciò conferiva una straordinaria importanza alle Conferenze dei sindaci dell’area metropolitana chiamate a sostituire in prima istanza il Consiglio provinciale e presiedute dal sindaco del Comune capoluogo. Esse non dovevano semplicemente applicare una legge già definita in tutti i suoi particolari, ma dovevano pronunciarsi con chiarezza su almeno tre temi: sull’ opportunità stessa di dar vita alla città metropolitana (si poteva anche, ad esempio, optare per una semplice Unione dei Comuni); sugli obiettivi che con essa si intendevano perseguire e sulle modalità per raggiungerli. In altre parole, erano chiamate ad esercitare un vero e proprio ruolo costituente. Ruolo che non compete certo a dei burocrati e nemmeno a dei semplici amministratori, per quanto validi, ma che compete esclusivamente alla politica. Anzi, è il primo ed anche il più difficile dei suoi compiti. Naturalmente quando essa intenda o sappia esercitarlo.

Prima ancora che “istituzionalmente”, infatti, la città metropolitana va pensata “strategicamente”. Prima che una costruzione burocratica, deve essere un modo di vedere la città, un modo di pensarla, un’idea di che cosa sia e di quale ruolo essa giochi in Italia e nel mondo. Solo partendo da qui si potranno poi costruire dal basso, con duttilità, pazienza e spirito pratico le forme originali del suo autogoverno.

Due sono le esigenze fondamentali da soddisfare. La prima è quella di estendere e di intensificare sull’intera area metropolitana quella “qualità urbana” che è uno dei fattori fondamentali di sviluppo dell’economia contemporanea. “Qualità” che è fatta di tante cose: connessioni rapide, servizi efficienti ed accessibili, un ambiente pulito, ordine urbanistico, bellezza architettonica, socievolezza, cultura e lavoro. “Qualità” che Saskia Sassen, la più importante studiosa oggi di sociologia urbana, ha riassunto di recente nel concetto di “diritto alla città”. La seconda, non meno importante, è quella di non smarrire, nel corso di questo processo, la più importante caratteristica della città e, nel caso di Milano, la sua capacità di integrare senza sopraffare.

Inutile dire che Expo ha rappresentato il perfetto paradigma di tutto ciò: di ciò che Milano è e vuole diventare, di ciò che sa fare, di come vede se stessa nel mondo e di come è vista dal mondo, di come funziona, dei fattori di crescita su cui punta e, soprattutto, di chi siano oggi e dove vivano i milanesi.

È come se a Milano fosse stata offerta, con Expo, la possibilità di ripetere l’esperienza della prima Esposizione Universale del 1881, quando, oltre a mettere in mostra i primi risultati e le grandi promesse della nascente industria italiana (che aveva proprio a Milano il suo centro propulsore) la città si impegnò in uno straordinario sforzo di ricerca su se stessa, la propria economia, la propria cultura e struttura sociale che ancora oggi impressiona per profondità e lungimiranza. I sei volumi di “Milano 1881” ed i quattro di “Mediolanum” rappresentarono infatti il manifesto con il quale Milano definiva se stessa e si proponeva al paese nel ruolo di “capitale morale”. Un ruolo in cui i valori dell’etica del lavoro e l’energica intraprendenza dell’individualismo borghese, testimoniati dall’Esposizione, si fondevano con l’orgoglio municipalistico della collettività ambrosiana. Un “mito”, quello della “capitale morale”, destinato ad infrangersi contro l’insorgere della “questione meridionale” e le politiche nazionali protezionistiche e repressive di fine secolo, ma pur sempre “l’unico mito ideologico serio, non retoricamente fittizio, elaborato dalla borghesia italiana dopo l’Unità”. (Vittorio Spinazzola)

Expo, più che fondare un mito, ha forse contribuito a prendere atto di una realtà per molti versi rivoluzionaria: quello della Milano “globale”. Già dalla seconda metà del secolo scorso, e comunque ben prima che gli economisti elaborassero il concetto, Milano era una grande area metropolitana. Lo era per funzioni abitative, insediative, produttive, formative, informative, finanziarie e di servizio. Lo era però, se così si può dire, senza saperlo. Senza porsi cioè il problema di rappresentarsi in quanto tale e, soprattutto, senza porsi il problema delle forme del proprio governo.

Oggi le cose sono radicalmente cambiate. Oggi Milano “sa” di essere, non solo una grande area metropolitana europea, ma una “città globale”, un “nodo” molto importante della rete dell’economia globale che ha però l’assoluta esigenza di rappresentarsi, di viversi e, soprattutto, di governarsi come tale se vuole continuare ad avere successo. Il problema “politico” della città metropolitana sta tutto qui.

La difficoltà principale consiste nell’immaginare il tipo di governance adatto a questa nuova realtà. Una governance “multilivello” di cui in Italia non ci sono esempi davvero significativi, tranne qualche sperimentazione con l’Unione di Comuni. Una governance in cui le decisioni pubbliche non siano prese sulla base di una chiara gerarchia di autorità, da un soggetto monopolistico (lo Stato), ma avvengano in un contesto multi-settoriale nel quale la contrattazione o la collaborazione tra soggetti di varia natura occupano un posto di rilievo. Una governance che rompa in sostanza con la logica verticistica e chiusa del nostro sistema amministrativo in cui più enti, dotati tutti di competenze tendenzialmente generali, si sovrappongono in ordine gerarchico come in una matrioska, senz’altra logica evolutiva che non sia quella sostitutiva ed incrementale.

Se con le città metropolitane si vuole evitare di sostituire semplicemente un elemento con un altro della matrioska, o addirittura di aggiungerne uno nuovo, e si intende passare invece ad un sistema poliarchico e pluralista, è necessario pensare a qualcosa di diverso, ad un’organizzazione dei pubblici poteri in cui la dimensione rappresentativa sia meno rilevante rispetto a quella legata all’esigenza di risolvere i problemi. Il ché non significa rinunciare alla politica ma, al contrario, significa affrontare tre questioni politiche fondamentali.

La prima è quella di individuare meccanismi formali ed informali di coordinamento di cui attualmente non disponiamo, la seconda è quella di affrontare in modo nuovo il rapporto tra la complessità istituzionale ed i costi della politica e la terza, ma non certo la meno importante, è quella di chiarire bene il rapporto tra tecnica e politica (chi fa le domande e chi decide le priorità?).

Sono queste le questioni su cui i “padri costituenti” milanesi sono chiamati, da qualche anno ormai, a pronunciarsi, aiutati dal fatto che a Milano esistono già tante realtà che si muovono e pensano in questa dimensione. Sono i motori dell’area metropolitana, i suoi centri “propulsivi”, i suoi “sistemi”: il sistema universitario e della ricerca in primo luogo, quello sanitario, quello aeroportuale, quello della moda, del design e delle più diverse, per nostra fortuna, filiere produttive. Sono il sistema museale e quello teatrale; il sistema delle Camere di Commercio, quello dei sindacati, degli industriali, degli artigiani). Sistemi, tutti, che domandano di essere ascoltati e di essere coordinati per dar vita a quella governance “multilivello” che sola serve a Milano.

Accanto a tutte queste realtà ci sono poi gli altri Comuni che devono e vogliono partecipare a questa storica impresa. E qui Milano dovrà muoversi con tutta la saggezza e la prudenza di cui è capace e che è per altro ben testimoniata dalla sua storia, ossia la sua capacità di integrare senza sopraffare. Milano non è una megalopoli e non può sicuramente proporsi di diventarlo adesso. Essa è piuttosto il “cuore” di un arcipelago funzionalmente integrato e densamente popolato, punteggiato di città e comuni che ne costituiscono, per così dire, le “isole”. “Isole” dotate di ampia autonomia e di radicati e profondi sentimenti di appartenenza locale che è necessario rispettare. “Isole” che si possono, anzi, si debbono “connettere” tra di loro, ma che sarebbe assolutamente sbagliato cercare di “annettere”. Cosa che, per altro, non è assolutamente nel DNA di Milano. Quando negli anni ‘60 una legge dello Stato, legge Gullo, rese obbligatorio il Piano regolatore di Milano anche per i Comuni limitrofi, Milano rispose dando vita al Consorzio Intercomunale Milanese, che esiste tuttora e che fa sì, ad esempio, che anche il recente Piano di governo del territorio di Milano sia un Piano aperto alle connessioni e non rovesci certo all’esterno i propri problemi.

Insomma, se Milano è un arcipelago, essa va governata come tale, e non come uno stato continentale accentrato. Ed in questo ci può soccorrere la lezione di Carlo Cattaneo che, nelle sue “Notizie storiche e civili sulla Lombardia”, spiega che le città si sono storicamente evolute seguendo due vie: la via etrusca, “federativa e molteplice, vivaio di città generatrici di città”, e la via romana, tendente ad ingigantire un’unica città “che il suo stesso incremento doveva snaturare”. Milano, pur non essendo città etrusca, ne ha inconsapevolmente seguito la strada. Essa è una grande città circondata da grandi città di cui essa stessa ha stimolato la crescita. Conservare, anzi, esaltare questa sua caratteristica è la vera sfida politica posta dal passaggio alla dimensione di città metropolitana.

Piero Borghini

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