5 marzo 2018

4 MARZO 2018

Il Pd è morto, viva il Pd?


Le pessime sensazioni della vigilia si sono avverate: il voto del 4 marzo ci ha catapultato nella Terza Repubblica. Una nuova era politica, dove le forze antisistema a matrice populista guadagnano la grande maggioranza dei voti, riducendo la voce del Partito Democratico a poca cosa. Si è recitata una commedia dove al PD è rimasta addosso la maschera del politico complice di un establishment che gioca cinico con il destino dei popoli, mentre Lega e 5 Stelle hanno indossato quella ammiccante della forza antisistema, soli campioni della sovranità nazionale. Ha stravinto un racconto della crisi che l’addebita tutta quanta alla casta ed agli immigrati che tutela. Un gioco facile e vincente, anche perché il PD si è ben prestato al massacro.

ucciero09FBLa debacle del consenso elettorale è talmente drammatica da presentarci una sola domanda essenziale: il PD è morto, o è ancora vivo? Ha già terminato la sua breve vita, o ha ancora qualcosa da dire e da fare in Italia ed in Europa? E con quale visione, quali parole d’ordine ed in nome di chi? È l’inane “soggetto privo di amalgama” (Massimo D’Alema), oppure il ricco incubatore di una stagione neoulivista (Romano Prodi)?

Due sono i temi su cui si è vinto o perso: sofferenza sociale ed immigrazione, legate in un racconto che addebita la prima alla seconda, facile capro espiatorio. E’ la risposta di destra al tema della globalizzazione, all’incertezza ed alla paura di massa, sentimenti diffusi a cui il PD non ha saputo, per certi aspetti potuto, proporre una diversa visione.

Si potrebbe anche dire che il PD ha pagato dazio come tutte le sinistre o centrosinistra europei: in Spagna e Francia, Germania, per non dire nell’est Europa, la caduta del consenso è stata altrettanto se non più rovinosa per una sinistra percepita come espressione dell’establishment. Una deriva che, a ben vedere, non nasce con Renzi, ma nel 2011 quando il PD accettò la pesantissima “stagione di sacrifici” imposti da Monti al lavoro dipendente ed ai pensionati, senza bilanciarne il peso verso altri strati sociali. Oggi Luigi Bersani ricorda con rammarico il ritardo con cui “staccò la spina a quel governo”, ma il danno fu enorme: la riforma Fornero ha lasciato sul campo milioni di morti e feriti, che dotati di scheda elettorale, se lo sono ben ricordata anche loro.

Si poteva fare altrimenti? Per un giudizio equilibrato dovremmo ritornare ai momenti drammatici in cui il debito pubblico rischiava di non essere più rifinanziato, e con quello stipendi e spese sociali, ma resta l’amaro in bocca per non aver saputo almeno alleviare l’impatto dell’establishment finanziario a trazione franco – germanica. Poi il 25% di Bersani, il Governo Letta che procede con juicio, in totale distonia con il neo segretario, che lui sì aveva le idee ben chiare su come riportare il PD nel XXI secolo, altro che “telefono a gettoni”. Presa in mano la lettera di Trichet a Berlusconi, il Governo Renzi si è ben applicato e mentre da un lato operava dazioni sociali a man bassa (80 euro), dall’altro, indossato il maglione blu di Marchionne, ha avviato una serie di riforme decisamente osteggiate dal mondo del lavoro ancor più che dal sindacato: JOBS ACT e BUONA SCUOLA hanno segnato un profondo distacco per contenuto e valenza simbolica.

Non pochi allora hanno fatto i conti: è stato il PD e non Berlusconi a togliere l’art. 18, ed è stato il PD a spostare 5 anni avanti l’accesso alla pensione. Non parliamo poi dei toni sprezzanti usati verso la magistratura e verso il comparto pubblico, tanto che la stipula tardiva dei contratti negli ultimi giorni della campagna elettorale è sembrata solo una mossa furbesca.

Le buone cose pure fatte in tema di diritti, la bandiera solidale tenuta alta nel governo dei flussi migratori, i primi accenni di ripresa ed il rassicurante profilo del governo di Paolo Gentiloni, non hanno avuto la forza di cambiare di segno il giudizio popolare.

Le ripetute sconfitte elettorali e referendarie dal 2014 ad oggi dovevano mettere sull’avviso: al contrario, si è ancora più premuto il pedale dell’acceleratore, negandosi ad un ampia discussione interna che consentisse bilancio e revisione delle politiche fin lì seguite. Lo schiaffo del 4 dicembre è stato incassato ed al tempo stesso negato, la sinistra bersaniana è stata accompagnata con un ghigno soddisfatto alla porta, e l’ordalia artificialmente programmata ha confermato nel partito un segretario ormai privo di forza propulsiva nel paese.

Un leader rinserrato nella difesa di equilibri interni sempre più precari: la composizione delle liste elettorali è stato il malinconico suggello della visione privatistica di un segretario, che, nato urlando contro la casta arraffona, si è ridotto ad imporre la Boschi ai poveri bolzanini …… . Alla catastrofe hanno resistito pochi territori perlopiù metropolitani e tra questi Milano appare di grandissima rilevanza per l’originalità della vicenda politica che dal 2011 genera innovazione vincente nella sinistra italiana.

L’artefice trionfante del 40% alle europee ha impiegato tre anni per portare il PD al 19%, peggior risultato di sempre nella sinistra italiana: delegittimato dal voto popolare, presenta strane dimissioni a rate e speriamo senza elastico, anticipate in una conferenza stampa condotta con protervia lunare. Dice che farà il senatore semplice, ma intanto pretende dal fondo del burrone che si è scelto di condizionare le future scelte del PD.

Ma torniamo alla domanda iniziale: il PD è ancora vivo? Ha ancora senso? Verso dove e con quali risorse?

Il disastro anche peggiore delle liste alla sua sinistra, dovrebbero convincerci che il PD è tuttora il solo luogo concreto e disponibile in cui un nuovo centrosinistra può reinventarsi, aprendosi però e non chiudendosi su sé stesso nel ricordo di un maggioritario escludente.

Occorre confrontarci tutti quanti, non importa dove collocati, con la nuova difficilissima situazione e con le domande lasciate irrisolte: il profilo di una sinistra nel vivo della globalizzazione, le politiche in Europa, la lotta contro la diseguaglianza sociale, la tutela dei diritti del lavoro stretto tra innovazione e flessibilità, il compito dei corpi intermedi in una società complessa, il ruolo del pubblico nei processi di sviluppo, e soprattutto, e prima di tutto, la partecipazione democratica in un partito ridottosi a forme plebiscitarie di supporto al leader.

Serva tanta aria nuova, un nuovo clima ed un rinnovato senso di comunità, senza le quali ogni sforzo, temo, sarà reso vano dalle reciproche diffidenze e chiusure. Serve un contributo collettivo, così come si rende indispensabile una leadership autorevole che accompagni il PD in un percorso non facile e non breve: molti sono i profili possibili evocati, da Orlando a Minniti, ma a me piace pensare a Walter Veltroni e Paolo Gentiloni, entrambi capaci di memoria e di innovazione, di modernità e di legami, di ascolto e mediazione, di passato e di futuro, entrambi uomini che sanno unire più che dividere, dialogare più che comandare, riannodare più che tranciare i fili dispersi dentro e fuori del partito, testimoni sgomenti come noi di una vicenda che solo una nuova stagione vedrà ricomposte in un corpo unico le “disjecta membra” del PD e del centro sinistra italiano.

Occorre un Congresso vero, un’assise capace di rigenerare energie, visione, contenuti ed afflato partecipativo: non c’è fretta, la fase è di lungo periodo, prepariamolo e facciamolo bene, che un PD davvero vivo è indispensabile al centrosinistra ed al Paese.

Giuseppe Ucciero



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