9 gennaio 2018

TUTTI AL VOTO: LE GRANDI INCERTEZZE

Liberi e uguali: ne valeva la pena?


“Renzi fu tra i più disonesti dei capi riformisti, perché fu tra i più corrotti dal parlamentarismo e dall’opportunismo… fu responsabile di quel falso unitarismo che nascondeva tante menzogne e fu l’origine di tanta impotenza … gli mancavano le qualità e capacità di un uomo di Stato … Per questo la sua vita può ben essere presa come un simbolo, e come un simbolo è la insegna del tradimento e del fallimento … le famose frasi lapidarie di Renzi, quelle con le quali egli fece fortuna nei congressi sodanti, davanti a quel pubblico di brava gente ignara e di birbe e furbi matricolati, sono dei motti di spirito non sempre geniali, dei trucchi ideologici grossolani, dei giochi di parole, delle banalità, delle cose senza senso alcuno … Era tagliato fuori del tutto dalla comprensione della situazione pre-sente … sapeva l’arte sottile di non farsi battere e anche battuto formalmente, di continuare a influenzare in modo decisivo tutto il movimento … fu nemico acerrimo del nostro partito e noi fummo e rimaniamo suoi acerrimi nemici, nemici di tutto ciò che il renzismo è stato, ha fatto, ha rappresentato. Bisogna che le masse lavoratrici italiane siano liberate, e liberate per sempre, e a fondo, di questa roba. Bisogna che anche quelle parti di esse che sono ancora legate a questo passato di fallimento e di tradimento imparino a giudicarlo con spregiudicatezza, a respingerlo da sé.”

02marossi01FBQuesto potrebbe essere l’incipit di un articolo di Grasso, Civati, Dalema dedicato a Renzi e alle prossime elezioni. In realtà è un brano di Palmiro Togliatti scritto in occasione della morte di Turati. Non che voglia paragonare Renzi a Turati (i molti Martini bevuti non mi hanno ancora così rincoglionito) ma voglio sottolineare che il culto della divisione non è una novità e che è inutile fare appello a non meglio precisate “unità delle sinistre e dei progressisti” a “fronti comuni contro il populismo” a “pericoli di destra” a “porte aperte” quando il giudizio sul leader di uno degli indispensabili alleati di una ipotetica coalizione è come quello di Civati: “Renzi e Berlusconi sono facce della stessa medaglia, sono l’uno il Crozza dell’altro. Le cose che Berlusconi promette, Renzi le realizza…”, di Fratoianni: “Noi contro la destra lavoriamo a una prospettiva incompatibile con questo Pd”, di Speranza: ”è un irresponsabile”, di D’Alema: “Craxi è sempre stato un uomo di sinistra. Renzi alla sinistra è totalmente estraneo. Non c’entra proprio nulla”, anche se nessuno raggiunge il livello di Bersani: “la vera sofferenza non è stata l’ictus ma la fiducia a Renzi”.

Grassi e Boldrini facendo fallire il progetto “del costruttor di ponti” Pisapia hanno obbligato tutti ad andare alle elezioni nella chiarezza.

Non è la prima volta che questo accade nel nostro paese e nella nostra città, anzi siamo vicini al centenario della fine dell’amministrazione Caldara, il più autentico esperimento riformista milanese, affossato anche dalla fronda interna, tuttavia c’è una novità: l’odio per Renzi si estende selettivamente anche agli alleati di Renzi, discende da Roma alle città e alle regioni. Ma se nelle città il danno è poca cosa perché abbiamo il doppio turno, alle regionali vi è il turno unico e nessun ripensamento è possibile.

Quando socialisti e comunisti nel secondo dopoguerra si divisero fu proprio Togliatti a proporre a Nenni come mantenere nelle elezioni amministrative un’ alleanza: con le liste civiche. Alle elezioni del 1952, quando si votava con una legge simile all’attuale, a Napoli fu presentato Arturo Labriola candidato a sindaco, mentre a Roma un altro giovane Francesco Saverio Nitti doveva far dimenticare il Fronte Popolare ma mantenere l’alleanza social–comunista.

Ora è vero che Gori non è né Labriola né Nitti e Bussolati non è Togliatti, ma perché con una legge presidenzialista e maggioritaria si vuole presentare un candidato a presidente che non ha nessuna, ripeto nessuna, possibilità di vincere?

Perché l’obbiettivo di Onorio Rosati e compagni si riassume in una semplice valutazione rigolettiana: “questo e quello per me pari sono” e in una strategia: “tanto peggio tanto meglio” che non ha caso è il titolo di un famoso articolo di Errico Malatesta non proprio un riformista (in Umanità Nova, 26 giugno 1920).

La giustificazione che l’election day obbliga a semplificare le opzioni, oltre che partire dalla considerazione che gli elettori sono stupidi, dimentica che proprio all’ultimo election day lombardo nel 2013, il Movimento Cinque Stelle aveva perso tra politiche e regionali ben 350.000 voti, mentre tra la lista Monti e quella Albertini la differenza era addirittura di 472.000 voti, all’inverso il candidato Ambrosoli aveva preso 2.194.000 voti cioè quasi 600.000 più della coalizione bersaniana.

Notate che gli elettori furono 5.938.000 per le regionali e 5.933.000 alle politiche, vale a dire che ci fu voto disgiuntissimo tra le une e le altre.

L’obbiettivo di LEU è affossare Gori che rappresenta (forse suo malgrado) il nuovismo renziano e che sbeffeggiano: “Si appella al centrosinistra che è una categoria dello spirito in questo Paese, e non della politica”, con la speranza di affossare Renzi e con lui il PD. Gori, sostengono, non garantisce una discontinuità radicale con le politiche del centrodestra, in questo, va detto, aiutati, e molto, dallo slogan scelto dallo stesso: “Fare meglio” realistico ma scarsamente palingenetico così come dalla ipotizzata stessa candidatura di Renzi in Lombardia. A poco sembrano servire le goffe blandizie di Majorino: “Gori non è Renzi” o le scomuniche del sindaco Sala: “Spaccature intollerabili”, cui i grassiani rispondono seccamente: “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”. L’abbandono di Maroni in questa querelle tra ex amici sembra del tutto irrilevante, il centrodestra fa corsa a parte.

La domanda che ci si deve porre è: ma una candidatura di sinistra quanto danneggia Gori?

Vediamo un po’ di dati:

Alle regionali del 2013 SEL prese 97.000 voti pari all’1,81%, Etico a sinistra 52.000 voti lo 0,96% ed IDV 35.141 lo 0,65%, mentre alle politiche SEL prese 135.000 in coalizione con Bersani, e Ingroia da solo circa 89.000.

Alle regionali del 2010, a sostegno di Penati, SEL prese 60.000 voti, ci fu il boom di IDV con 268.000 voti (il 6,29%) mentre il candidato presidenziale di Sinistra, Vittorio Emanuele Agnoletto, prese 87.000 voti: il 2%.

Alle regionali del 2005 erano tutti nella coalizione a sostegno di Sarfatti; Rifondazione Comunista prese 248.000 voti pari al 5,67%, i comunisti italiani 104.000 voti pari al 2,38% e IDV 61.000, pari all’1,4%.

Grosso modo possiamo dire che, limitandoci all’area progressista:

  1. più larga è la coalizione più voti prende il candidato (non necessariamente una ovvietà), non a caso Sarfatti arrivò al 43,17% con il 73% di votanti mentre Ambrosoli si è fermato al 38% con il 76, 74% di votanti;
  2. vi è una fascia di elettori di sinistra radicale calcolabile attorno ai 100.000 voti che vota il candidato di coalizione solo se non ha alcuna alternativa, li definirei irriducibili;
  3. vi è una fascia di elettori che nella coalizione, votando il candidato a presidente, in genere un moderato, si “tutela” con un voto alle liste più radicali;
  4. vi è una fascia di elettori che vota solo il candidato a presidente, 179.000 nel caso di Ambrosoli, 182.000 nel caso di Penati, 433.000 nel caso di Sarfatti che fu anche il candidato che capitalizzò il maggior voto disgiunto. Ottenne infatti l’1% in più della sua coalizione.

Tutto ciò premesso, utilizzando lo scientifico metodo della spannometria possiamo dire che:

  1. sicuramente il candidato di sinistra, o per meglio dire le liste a lui collegate, prenderanno meno voti di quanti avrebbero potuto prenderne in coalizione, capitalizzando in sostanza solo gli irriducibili con in più gli antirenziani sfegatati. Inoltre vi è il concreto rischio che non elegga nessun consigliere come avvenne per Albertini la volta scorsa.
  2. Gori perde meno voti di quanto paventato, in parte perché a) una parte gli irriducibili non lo avrebbero mai votato, anche perché le storie personali in questo mondo contano: Sarfatti era un rappresentante della borghesia di sinistra di antica data, Ambrosoli era la personificazione borghese delle vittime del sistema. Gori è borghese di successo ma ex craxiano dipendente di Berlusconi; in parte perché b) proprio l’election day favorirà il voto disgiunto.

Tuttavia voti potenziali ne perde, e cioè quella parte di elettori radicali che lo avrebbero votato pur turandosi il naso. Se vuole vincere quindi deve recuperare voti altrove.

Ma dove?

Al centro; tra i 219.000 voti di Albertini e Casini e tra i 69.000 voti di Pinardi alle ultime regionali, mondi nei quali né il PD né Renzi godono oggi di grande stima, ma dove non avere come alleati D’Alema, Civati e la CGIL può essere utilissimo e apprezzatissimo. Quindi Gori sarà obbligato a fare una campagna più renzian-minnitiana del preventivato, una campagna che si svilupperà sui contenuti cari alla destra e ai moderati come del resto già il referendum dell’ottobre scorso aveva fatto capire.

In pratica, sui contenuti, il centrodestra ha già vinto; allora viene da fare a LEU una domanda: “Ne valeva la pena?”

Walter Marossi



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