9 gennaio 2018

LA PIATTAFORMA VA IN CITTÀ

Regolare prima che la situazione sfugga di mano


Le piattaforme digitali vengono presentate come lo sviluppo più promettente per far uscire l‘economia dalla Grande Recessione dell’ultimo decennio. Le loro applicazioni creano uno spazio digitale dove coloro che offrono servizi incontrano potenziali clienti: i bisogni di questi vengono soddisfatti dai primi e i padroni dell’applicazione ottengono una percentuale da ogni transazione. In breve danno lavoro a chi non l’ha: servizi di trasporto e logistica, prestazioni professionali dai più bassi fino ai più alti livelli di specializzazione, e incrementano il reddito di coloro che ne hanno bisogno, ad esempio con l’affitto temporaneo di una stanza nel proprio appartamento e con contratti di prestazioni professionali ad hoc. Le opportunità che questa nuova economia offre sono inoltre moltiplicate dalla sua connotazione di grande accessibilità e flessibilità. È la promessa dell’annullamento dello spazio che si avvera: non importa dove sei, puoi offrire o usufruire di un bene o di un servizio.

04vicari01FBIl digitale ha però bisogno, per così dire, di “atterrare” da qualche parte; in effetti queste opportunità prendono forma principalmente in città, in specifici contesti urbani dove la densità di persone e imprese costituisce il contesto necessario al loro manifestarsi. Qual è l’impatto sulla città?

Diciamo subito che per la maggior parte questa economia si sviluppa in settori che avevano già visto una progressiva precarizzazione e flessibilizzazione. Ma in questo caso assistiamo alla messa in discussione della definizione stessa di lavoratore come titolare di diritti e garanzie. Si tratta infatti di collaboratori autonomi e fornitori indipendenti di prestazione d’opera, che nella retorica diventano ”imprenditori di se stessi”. Le piattaforme sfruttano l’assenza di regolazione o l’aggirano e i tentativi di tutelare queste forme di lavoro sono stati per ora fallimentari. La cosa non sorprende perché la piattaforma interagisce con i lavoratori attraverso l’applicazione, senza interazione diretta e in forma assolutamente individualizzata, isolandoli da ogni contatto umano con altri lavoratori. In queste condizioni è impossibile che si generino forme di solidarietà e di organizzazione collettiva. Emblematici sono a questo proposito i pochi esempi di azioni di protesta. A Milano qualcuno ricorderà lo sciopero dei fattorini di Deliveroo il 15 luglio scorso e l’agitazione di quelli di Foodora l’autunno precedente: queste azioni sono state rese possibili dal fatto che questi lavoratori si riuniscono in luoghi fisici, gli “hotspot”, dove ricevono i messaggi dalla piattaforma. Questi “luoghi di lavoro”, per quanto temporanei e fugaci, hanno permesso l’interazione tra i lavoratori che condividevano la stessa condizione lavorativa e, da qui, la costruzione di quella solidarietà alla base della mobilitazione. Si tratta però di una caratteristica dell’applicazione che può essere cambiata e che comunque non è presente in altre piattaforme; inutile dire che quelle azioni non hanno portato ad alcun miglioramento nelle condizioni di lavoro o nelle tutele, ma hanno segnalato la nuova diffusione del lavoro a cottimo nel mercato del lavoro urbano, purtroppo nel generale disinteresse.

Per quanto riguarda il lavoro, quindi, l’economia delle piattaforme si basa su lavoratori assolutamente isolati e autonomizzati, privi di diritti e il cui sfruttamento è paludato da retoriche di libertà e auto-imprenditorialità. Nel frattempo le strade della città vedono un incremento di traffico generato dai più disparati mezzi di trasporto per le consegne di beni e servizi acquistati online, mentre si riempiono di negozi vuoti e spazi desertificati, proprio per il passaggio all’acquisto online di beni e servizi.

Un impatto significativo si ha sul mercato immobiliare, in particolare per quanto riguarda l’affitto. Mentre la retorica parla di AirBnb come generatore di un reddito integrativo per la famiglia con una stanza in più e gli amministratori locali affrontano il problema della sua regolazione in termini di tassa di soggiorno, si manifestano tendenze e aspetti ben più problematici. Dove AirBnb è più attivo ha determinato una forte contrazione degli affitti a lungo termine. Perché dovrei fare un contratto regolare di 4+4 anni quando posso guadagnare 10 volte tanto mettendo il mio appartamento sulla piattaforma e affittando per brevi periodi? Via via che questo mercato si amplia richiama sempre più unità immobiliari, in un circolo che si autoalimenta: si formano nuove figure professionali che gestiscono insiemi di diverse decine di case e appartamenti, mentre crescono gli investimenti in unità immobiliari dotate delle caratteristiche che le rendono appetibili in questo mercato: centralità o attrattività del quartiere, accessibilità con il trasporto pubblico. Si alimentano geografie di investimento che privilegiano quartieri già favoriti a discapito di altri.

Altrettanto significativo è l’impatto sulla infrastruttura urbana. Le piattaforme di trasporto (Uber, Lyft, Waze, Blablacar) spingono le persone lontano dal trasporto pubblico e verso soluzioni individuali e privatistiche. Da un lato si riduce la domanda che si rivolge al trasporto pubblico, mettendone a repentaglio la sostenibilità economica, dall’altro si seleziona il tipo di utenza: meno informatizzati, meno abbienti, anziani, ecc. per cui il trasporto pubblico rimane l’unica soluzione. Da non trascurare l’effetto più generale di discredito dell’ethos del pubblico e dei beni comuni.

Si genera infine un clima che legittima pratiche che eludono le norme quando non di vera e propria illegalità. Della mancata protezione del lavoro si è già detto, ma si diffondono pratiche di affitto e subaffitto che generano disagi e insicurezza per esempio per i condomini che si trovano a fare i conti con persone sempre nuove e comportamenti contrari a usi consolidati. Sono all’ordine del giorno furti della proprietà intellettuale e abusi di vario genere, da cui non c’è modo di difendersi.

Per queste, e per molte altre ragioni che riguardano lo sviluppo delle piattaforme e dell’intelligenza artificiale, è urgente che si affronti il problema della regolazione, pur nella consapevolezza delle difficoltà che essa pone e degli effetti imprevisti e forse perversi che può scatenare in sistemi complessi come le città contemporanee. Si ha però l’impressione di essere a un bivio in cui si impone con urgenza la via della regolazione, poiché la dinamica convulsa dello sviluppo dell’economia digitale tende a generare attori monopolisti la cui forza sarà sempre più difficile da controllare e indirizzare.

Serena Vicari



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