19 dicembre 2017

CITTÀ METROPOLITANA E AUTONOMIE LOCALI: UN BILANCIO

Un anno di acqua pestata nel mortaio


Confesso che non è affatto agevole fare un bilancio su una storia davvero infinita che si chiama Città Metropolitana e sui relativi problemi annessi e connessi che toccano gli assetti istituzionali e i diritti fondamentali. Fa bene Arcipelago a tenere vive l’attenzione e l’analisi sulle questioni inerenti alle aree urbane metropolitane, in particolare di Milano. Il lettore che volesse documentarsi può farlo consultando gli articoli pubblicati su questo giornale.

02natale42FBSe mi è consentito, mi riferisco agli articoli di Ballabio, Targetti e di chi scrive. Con i nostri contributi, ci si propone di concorrere, con proposte concrete, al consolidamento del sistema costituzionale. Valorizzando e attuando la Costituzione nei suoi principi fondamentali, si può percorrere la strada indicata dall’art. 5 (le autonomie locali e il più ampio decentramento dello Stato) e dall’art.118, ultimo comma (“Stato, Regioni, Città metropolitane, Province e Comuni favoriscono l’autonoma iniziativa dei cittadini, singoli e associati, per lo svolgimento di attività di interesse generale, sulla base del principio di sussidiarietà”). Si tratta di radicare nei territori le istituzioni democratiche e di favorire la partecipazione dei cittadini: fare diventare la Repubblica il vero “bene comune” della società.

Con tali motivazioni, si fondò nel 2005 un Comitato che si rivolse alla cittadinanza e agli amministratori, al mondo della cultura e della politica, con un Appello e una proposta di Statuto della Città Metropolitana Milanese. Nel 2011 si costituì il Forum Civico Metropolitano, a cui aderirono comitati ed associazioni di cittadinanza attiva sui problemi della qualità della vita urbana. Partendo da questioni concrete di interesse metropolitano e regionale (piani di governo dei territori, mobilità e trasporti, ambiente ed inquinamento, riconversione ecologica dell’economia ecc.), venne riproposta all’attenzione dell’opinione pubblica la necessità e l’urgenza di riordinare il sistema delle autonomie locali e di riformare gli Enti intermedi tra Regione e Comuni. Non si seguì l’onda demagogico-mediatica dell’abolizione delle Province, ma si ragionò sui criteri di riformarle e ridurne (non aumentarne) il numero e di abolirle nelle grandi aree urbane in cui doveva sorgere il nuovo Ente intermedio: la Città Metropolitana.

Le condizioni indispensabili per un riordino democratico delle istituzioni locali erano e continuano ad essere: il reale decentramento dello Stato; la riduzione di poteri e compiti di gestione delle Regioni da distribuire agli enti intermedi e ai comuni; l’abolizione del “capoluogo” in quanto grande comune unico e sua articolazione in comuni-unità amministrative di pari dignità con i comuni medio-piccoli dell’area metropolitana; la partecipazione in forme adeguate dei cittadini al governo locale.

Questo movimento di consapevolezza e responsabilità democratica “di base” contrastava evidentemente col processo in atto – a partire dagli anni Ottanta del secolo scorso – di riduzione di spazi di partecipazione (significativa l’adozione, dal 1993, del sistema elettorale maggioritario e premiale, che riduce drasticamente la rappresentanza eguale e plurale), di crescente dominio del modello di capitalismo finanziario e globale e quindi di drastico ridimensionamento del welfare e dei diritti fondamentali, di crisi dei partiti storici e di predominio di gruppi di potere economico, politico, culturale e di oligarchie, in un contesto sempre più grave di degrado generale e di penetrazione nei gangli vitali della società e delle istituzioni dei tentacoli della criminalità organizzata, della corruzione e della evasione fiscale.

Sia a livello nazionale che locale le battaglie e le rivendicazioni della cittadinanza attiva non solo non hanno trovato ascolto, ma hanno sbattuto la testa contro micidiali muri di gomma dei governanti nazionali e locali e di tutte le forze politiche. Nello specifico dei temi in questione, a differenza dei tentativi non andati in porto dei Governi Berlusconi, Monti e Letta, il Governo Renzi è riuscito a mettere profondamente in discussione i diritti fondamentali (lavoro, salute, istruzione) e i pilastri dello stesso sistema costituzionale.

La Legge 56/2014 (la Delrio) ha apparentemente abolito le Province in attesa della loro cancellazione dal dettato costituzionale, lasciandole però nelle mani dei sindaci senza l’elezione diretta dei suoi organi. Ha apparentemente istituito le Città Metropolitane, private anch’esse di organi elettivi e con quali sindaci quelli dei capoluoghi. I cittadini esclusi! Abolito il diritto di voto!

Queste disposizioni, come la legge elettorale Italicum, bocciata dalla Consulta che aveva già dichiarata incostituzionale la precedente detta Porcellum, anticipavano la revisione, anzi lo stravolgimento, della Costituzione nel senso dell’accentramento dei poteri nelle mani dell’esecutivo (“l’uomo solo al comando”). Ma il “popolo sovrano” ha detto No nel referendum del 4 dicembre 2016, come disse di No nel 2006 alla controriforma berlusconiana .

In un Paese davvero democratico i gruppi dirigenti e le maggioranze parlamentari sconfitte si dimettono, oppure correggono i loro comportamenti e le loro politiche. Nulla di tutto ciò avviene in Italia. Come se nulla fosse accaduto, alla vigilia delle nuove elezioni viene approvata una legge elettorale che ha gli stessi difetti di quelle precedenti, limitando gravemente il diritto di scelta dell’elettore.

Palesemente incostituzionale, con evidenza lapalissiana dopo la conferma della Costituzione vigente col voto di 20 milioni di italiani, la Legge Delrio non è stata abrogata e continua a fare danni gravissimi ai territori e a creare caos nei governi degli Enti Locali, che si vedono ridotti drasticamente le risorse finanziarie.

A nulla valgono gli appelli e le denunce dei Comuni, soprattutto di quelli piccoli e medi. Non è ascoltata l’Unione delle Province che, proprio il 7 dicembre scorso, ha inviato una lettera al Parlamento chiedendo i fondi necessari da inserire nella legge di bilancio per gestire la manutenzione dei 130.000 km di strade provinciali e delle 5.100 scuole superiori che ospitano 2 milioni e 500 mila studenti! Nel frattempo crollano ponti, aumentano incidenti e morti su strade dissestate e non si escludono chiusure di edifici scolastici in condizioni assai precarie.

Il Consiglio della Città Metropolitana di Milano, il 24 ottobre scorso, ha approvato un documento in cui si denuncia che «le Città metropolitane delle Regioni a statuto ordinario hanno subito tagli per 1 miliardo di euro tra il 2010 e il 2016. In rapporto alla spesa corrente preesistente, il taglio è stato pari a circa il 40%, con punte che sfiorano il 60%».

Nel contempo si celebravano, il 22 ottobre scorso, i due strani referendum lombardo-veneti che nessuna forza politica denunciava come atto demagogico inutile e ingannevole, a fronte di una situazione in cui le 20 Regioni si autorappresentano quasi come piccoli Stati e costano alla collettività ben 550 miliardi di euro annui, con sprechi evidenti e vergognosi e con effetti devastanti sulla tenuta unitaria e democratica del Paese.

Ma se i rappresentanti dei Comuni, delle Province e delle Città metropolitane si limitano a scrivere lettere ed appelli e ad alzare alti lai, sembrano quelli che pestano l’acqua nel mortaio con evidente spreco del prezioso liquido.

Non si può più accettare la logica strettamente finanziaria del fiscal compact: riduzione del rapporto Debito/PIL, a scapito del welfare, dei diritti e dei servizi essenziali, della funzionalità degli enti locali e dello stesso sistema democratico. Mentre sarebbe possibile un’altra politica: attuare la Costituzione e non più violarla, espandere la partecipazione dei cittadini con strumenti adeguati, ridurre i veri sprechi, le spese militari, colpire i capitali criminali … e rendere sempre più efficienti e partecipati gli organi di governo locale.

Giuseppe Natale



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