10 ottobre 2017

MITO DELL’ASSOCIAZIONISMO

Misurarne gli effetti: partendo dalle periferie


Milano ha il primato numerico dell’associazionismo! Bello! Bello? sicuri? magari, qualche associazione in meno? magari concentrare energie e risorse su gambe più robuste? magari non rincorrere la sopravvivenza dell’associazione (sede, commercialista, evento, festa, fundraising, testimonial, blog, etc.)? magari imparare a dialogare con altri operatori e trovare ragionevoli e fattivi punti di incontro? magari provare ad aumentare la massa critica, tenere a bada la spinta al narcisismo e alla autoreferenzialità associativa, sempre in agguato nelle nostre stanzucce?

03osti33FBProverò a rileggere una personale esperienza di impresa sociale, con gli occhiali del prezioso contributo di Zamagni, Venturi e Rago Valutare l’impatto sociale. La questione della misurazione nelle imprese sociali uscito sulla rivista Impresa Sociale numero 6 del dicembre 2015 (IS 6/15). Il nodo è complesso e non sarà certo possibile scioglierlo con un articoletto scritto a caldo.

Solitamente l’associazione nasce per la volontà di un piccolo gruppo di persone, di un singolo, animati da una forte volontà di rispondere a un bisogno, che è al tempo stesso sociale e personale. La coincidenza di queste due spinte (autorealizzazione e responsabilità sociale) rende vitale e originale lo scopo associativo. Poi naturalmente il confronto con la realtà provoca tante e inaspettate trasformazioni: cambiano le persone, il contesto, i bisogni, etc. C’è l’associazione che cresce e diventa impresa sociale, che si confronta con le dinamiche di un allontanamento dallo spirito pionieristico originario e quella che si avviluppa nelle idiosincrasie personali dei fondatori. Su questi temi, recentemente, Luigino Bruni ha scritto cose forti e vere.

Solitamente, un’associazione si prende cura di alcune fragilità, identificate in funzione della sensibilità dei fondatori. Raccoglie le proprie risorse tra soggetti privati e pubblici e opera per sopravvivere, che poi significa crescere e svilupparsi. Quindi corre sui due binari: motivazione e responsabilità, che poi vuol dire “dentro e fuori” o “noi e loro”. Da qui prende le mosse la spirale di reciproca dipendenza tra (1) situazioni di cronica fragilità sociale, interamente a carico dell’assistenza; (2) settore pubblico, costretto a prendere in carico tali situazioni, ma orientato a ridurre il proprio impegno, per trasferirne quote crescenti sull’associazionismo; (3) operatori che subiscono o riflettono essi stessi tale condizione di non-autonomia.

Proviamo allora a porci una prima semplice domanda: quante associazioni/enti no-profit si sottopongono a una seria procedura di autovalutazione di “costi / benefici” o per dirla in altro modo “input / outcome”? “La necessità di soffermarsi sul tema dell’impatto sociale generato dalle imprese sociali nasce dalla fase di passaggio che il Terzo settore italiano sta attraversando e che si lega inevitabilmente alla transizione da un modello di welfare state ad uno di welfare society (o civile), due sistemi di welfare che si basano su altrettanti principi. Da un lato, quello di redistribuzione, in cui lo Stato preleva dai cittadini risorse tramite la tassazione e le ridistribuisce attraverso il sistema di welfare; dall’altro, il principio di sussidiarietà circolare in cui i cittadini sono coinvolti nel processo di pianificazione e di produzione dei servizi (co-produzione), che supera la dicotomia pubblico-privato (ovvero Stato-mercato) aggiungendovi una terza dimensione, quella del civile” (IS 6/15 p. 78).

Autovalutare le attività di una impresa sociale significa “misurare” il grado di completamento degli obiettivi proposti, che a sua volta presuppone: (1) definire gli obiettivi, selezionati per tempi di realizzazione e risorse impiegate; (2) verificare periodicamente il grado di raggiungimento di tali obiettivi e in fine (3) porre in atto eventuali azioni correttive/integrative alla luce di quanto verificato. Questo approccio apre a una significativa caratteristica di metodo: la attività dell’impresa sociale (e in generale di qualsiasi tipo di impresa) non può essere isolata dal contesto in cui opera. Vale a dire che esiste una significativa correlazione tra i rapporti interni / modalità operative e le relazioni che l’impresa sociale stabilisce con i propri utenti, destinatari delle attività.

Gran parte delle imprese sociali ha una breve storia alle spalle, imprese giovani, spesso lontane da una stabile e duratura sostenibilità economico/finanziaria. Frequente è la tendenza a cercare “scorciatoie”, strade che – magari non del tutto coerenti con il set di valori originariamente condivisi – consenta un più rapido ed efficace raggiungimento dell’obiettivo economico. Attivare queste scorciatoie, tipicamente determina una minore attenzione alle dinamiche gestionali interne, rapporti di potere, condizioni di lavoro, rispetto della normative vigenti. Capita che ci si appelli al trito assunto “il fine giustifica i mezzi”, magari solo come fase temporanea. Quindi pressione sui tempi, sui vincoli di tenuta economica, contesto esterno che spinge verso pratiche aggressive e di mercato, legittima attenzione ad evitare sprechi ed inefficienze. Facilmente ci si ritrova a operare con le stesse modalità delle imprese da cui inizialmente ci si voleva differenziare.

Proviamo quindi a sperimentare il ribaltamento radicale, che “sono i mezzi a giustificare il fine”: sono le modalità con cui un gruppo di persone collabora positivamente, a determinare il risultato in termini di benessere per i soggetti coinvolti. “Il valore aggiunto prodotto” consiste nelle “caratteristiche/qualità positive che definiscono l’identità dei soggetti e che producono nel contesto di riferimento un cambiamento positivo. Il processo di misurazione non deve essere volto soltanto a quantificare l’esito dell’agire di queste realtà, cioè il cosa si fa, ma deve essere altrettanto valutato il modello, ovvero il come lo si fa, la dimensione identitaria appunto. Così declinato l’impatto è l’esito di un processo inclusivo, di partecipazione, di co-produzione” (IS 6/15 p. 87).

Ciò è tanto più vero, quanto oggetto dell’attività sociale non sia la mera erogazione di prestazioni, bensì l’attivazione di processi di “empowerment”, autopromozione, finalizzati a liberare le energie e l’autonomia dei soggetti coinvolti. “L’imprenditore sociale è colui il quale cambia la capacità di performance della società e riveste un ruolo di agente del cambiamento nel settore in cui opera, adottando una mission in grado di generare valore sociale e mostrando un elevato senso di trasparenza nei confronti dei beneficiari e rispetto agli outcome generati” (IS 6/15 p 79).

Torniamo all’esperienza del lavoro sociale nelle periferie milanesi, come ricorda Ilaria Li Vigni su ArcipelagoMilano del 27 settembre 2017: la scommessa del lavoro “dall’interno”, che conosce il tessuto sociale, che crea una rete di cittadini italiani e stranieri per “aiutare” il quartiere, che rileva problematiche e criticità e valorizza le ricchezze, è una strada possibile? Sì, se matura ed evolve da pratica dell’assistenza (quella che più sopra abbiamo definito come la “spirale della reciproca dipendenza”) a motore di risorse ed avvio di percorsi in autonomia.

Dove un processo partecipato e condiviso di auto-valutazione dell’impatto sociale, può funzionare da vaccino contro l’autoreferenzialità, diventare lievito di analoghi processi di autopromozione, che contagiano il contesto di riferimento. Ecco che i percorsi di autovalutazione troveranno maggiore efficacia se, nella vita associativa, introduciamo alcuni elementi correttivi. Per esempio: favorire processi decisionali in cui prevalga la collegialità; creare gruppi di lavoro dove collaborino figure professionali con diversi gradi di anzianità e responsabilità/esperienza;  consentire tempi larghi, favorendo momenti di confronto tra gli operatori (interni) e tra operatori ed utenti (esterni).

Annibale Osti



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