29 marzo 2017

MILANO, LA GLOBALIZZAZIONE E LE SUE ROTTE OBBLIGATE

La vera perdita di sovranità politica


“Milano e le sue rotte obbligate” è il titolo dell’aureo libretto di Fiorenzo Galli (Guerini e Associati, 2016) presentato il 14 marzo da Pier Giuseppe Torrani e Umberto Ambrosoli nel primo incontro Un libro al mese promosso da Associazione Interessi Milanesi (Aim) nella Sala Convegni Intesa Sanpaolo. Direttore generale del Museo nazionale della scienza e tecnologia di Milano, Galli parla anche per esperienza personale nella rete europea di musei, in cui Milano gioca alla pari grazie alle sue risorse professionali e cognitive, pur nell’asimmetria dei finanziamenti nazionali.

11gario12FBRotte obbligate, fatte di competenze e iniziative connesse nel mondo, che il ricercatore “ibrido” (ingegnere e sociologo) Pierre Veltz analizza in La Société hyper-industrielle, le nouveau capitalisme productif (Seuil, 2017), estremamente polarizzata in poli urbani che catturano valore e lavori qualificati, sulla scia californiana di Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon). Lo sanno per esperienza le inconsapevoli popolazioni dei territori contigui che, senza più industria, né vecchia né nuova, con Brexit e Trump tentano di compensare la loro sopravvenuta arretratezza con la forza coercitiva dello stato, proprio dagli Usa e dal Regno Unito che hanno imposto al mondo l’ideologia neoliberale della globalizzazione dura e pura, a beneficio dell’1% più ricco, che ora in quei Paesi governa per sé, in nome, pensa te, degli esclusi.

In effetti, sostituire accordi globali – via Onu, Fondo Monetario Internazionale (Fmi), Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) – o intercontinentali con accordi bilaterali non significa rinunciare alla globalizzazione, bensì volerla dominare, e in questa arroganza sta lo stesso problema politico posto dall’1% più ricco.

Una generazione dopo la fine del duopolio Usa-Urss, la globalizzazione economica è politica, perché l’iperindustria agisce alla velocità della luce, non si sa per andare dove, ma senza ritorno e fra distruzioni anch’esse nuove per cyber-odio, cyber-terrorismo e cyber-guerre non dichiarate tra stati sovrani solo di nome, nell’illusione di confini fisici e nella sostanza delle interazioni e relazioni nel mondo.

È la sovranità cui si aggrappano gli esclusi, perpetuando l’auto-esclusione contro il loro interesse e diritto di condividere nuove conoscenze e benefici materiali, e contribuire al loro avanzamento con la rapida diffusione dell’apprendimento per tutti per tutta la vita – con pari diritti e doveri per tutti e ovunque nel mondo unificato dalla tecnica, ma volutamente diviso per cultura.

Cittadini metropolitani iperindustriali e urbano-rurali deindustrializzati hanno tutti, non solo interesse, ma necessità di superare gli stati nazionali di democrazia rappresentativa (di e per chi?), per formare comunità politiche sovranazionali con governi federali e con forti autonomie nazionali e regionali, vaste democrazie con corti di giustizia a tutela dei diritti di tutti i cittadini (iper- o de- o per niente industriali), in quanto esseri umani e non per la ricchezza prodotta, reale o figurata, come dire l’Unione Europea con un vero governo e non un consiglio di 28 capi di governi nazionali che controllano la Commissione a beneficio di interessi neppure nazionali ma di parte, incolpandone l’UE.

È un gioco delle tre carte che fa il paio con quello dell’1% più ricco, fiscalmente apolide, che impone a impotenti governi nazionali la dogmatica proibizione neoliberale di ridistribuire ricchezza, anche quando ne va della vita dei cittadini.

Questo asimmetrico sistema globale/nazionale ci ha resi strabici fino a resuscitare nazionalismi socialisti ribattezzati populismi, che divinizzano l’1% più ricco col vecchio trucco del dialogo diretto tra capo e massa, già disastroso successo dell’odio nell’Europa delle due guerre mondiali.

«Se si dovesse rifare, comincerei dalla cultura», disse dell’unità europea Jean Monnet, uno dei padri fondatori dell’UE; e da qui stiamo ricominciando, spinti dalla nostra indocile creatura iperindustriale e non più prigionieri di risentimenti nazionalisti.

 

Giuseppe Gario

 



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