23 novembre 2016

SIAMO TROPPI

Noi o i migranti? Forse noi. Ma chi decide la strada verso l'abisso?


I tram milanesi ospitano una socialità rapsodica ma importante, che fa riflettere. Dicono che siamo troppi. Gli immigrati, naturalmente. Sono (eravamo) un problema già molti decenni fa.

05gario38fb«Ma i centri di emigrazione – nell’ottobre del 1955 abbiamo visitato quello di Milano, in piazza Sant’Ambrogio – continuano a operare come un mercato nel quale il governo italiano offre allo straniero il frutto dell’”esuberanza demografica” del paese, in condizioni che ci rammentano le parole di Luigi Einaudi, scritte a commento delle leggi fasciste del 1931 regolanti le migrazioni interne: “Ho vivo il ricordo di un libro sulla schiavitù dei negri, nel quale l’incisione riproduce il negriero, il quale palpa le carni e guarda in bocca ai prigionieri africani destinati all’imbarco come schiavi, per assicurarsi se siano sani ed a quale mestiere atti”…». Scriveva così nel 1963 Costantino Ianni, studioso brasiliano figlio di italiani, sulla secolare esperienza italiana d’emigrazione [Homens sem paz, trad.it. Il sangue degli emigranti, Milano 1965, p. 19]. E rifletteva sul fatto che «gli stessi emigrati e i loro discendenti – centinaia di milioni di persone d’ogni paese – ignorano cosa c’è veramente dietro l’emigrazione, la quale, come è stato ampiamente dimostrato, in modi diversi è stata una specie di commercio di uomini» [pp. 13-4].

Il troppo che stroppia sta in questo commercio di esseri umani, “Siamo troppi” invece è sbagliato e pericoloso, non per i migranti che sopravvivono a ben altro, ma per noi perché finisce col dare la caccia a chi è ritenuto di troppo. In Europa lo abbiamo già fatto, a usura. Ce lo ricorda la risorgenza del nazionalsocialismo che, inventato in Germania ostracizzando i deboli, si sta di nuovo profilando in Europa e attuando in USA, con la formula che difendiamo ciò che abbiamo e siamo di meglio, e sta solo a noi giudicare. È una scelta ideologica senza ritorno, una fantasia che ci si ostina a attuare fino a non si è distrutti dalla realtà, dopo aver distrutto molte vite non solo altrui. Lo sappiamo per esperienza, tale da essere indimenticabile.

Ripercorriamola con lo storico americano Henry Friedlander. «Nella terminologia utilizzata sia dai nazisti che dagli scienziati tale politica fu chiamata “Aufartung durch Ausmerzung”, che possiamo tradurre con l’espressione “miglioramento mediante l’ostracismo”» [trad.it Le origini del genocidio nazista, Roma 1997, p. 31]. «Il primo gruppo ad essere preso a bersaglio fu quello dei disabili. Questi furono esclusi dall’istituzionalizzazione, ma questo non bastò. Gli istituti, ostili alla loro esistenza, ridussero i servizi e cercarono di tagliare le spese per l’assistenza a disabili e malati di mente. Esclusi, incarcerati, sterilizzati e ignorati, i disabili furono giudicati sacrificabili, e dunque una progressione logica portò allo sterminio dei disabili nell’ambito del cosiddetto programma di eutanasia. L’altro gruppo di indesiderati, gli Asozialen, ricevette un trattamento analogo» [p. 32]. «Le uccisioni per eutanasia (cioè “l’esecuzione sistematica e segreta” dei disabili) furono la prima soppressione in massa organizzata dalla Germania nazista, un’occasione in cui gli assassini misero a punto la loro tecnica per dare la morte.

Essi crearono il metodo per selezionare le vittime; inventarono tecniche per uccidere col gas e cremare i corpi delle vittime; impiegarono sotterfugi per dissimulare le uccisioni e non esitarono a depredare i cadaveri. Le uccisioni per eutanasia si rivelarono l’atto di inaugurazione del genocidio nazista. L’omicidio di massa dei disabili precedette quello degli ebrei e degli zingari; la soluzione finale venne dopo l’eutanasia. Nell’eutanasia gli artefici dello sterminio riconobbero i loro limiti e, per evitare il biasimo popolare, trasferirono le stragi del Reich verso est. Tuttavia non vi fu alcuna differenza sostanziale tra le operazioni di sterminio dei disabili, degli ebrei e degli zingari. La tecnica di sterminio sviluppata e testata nell’ambito dell’eutanasia fu usata ripetutamente. Gli assassini che avevano appreso il loro lavoro nei centri di uccisione di Brandeburgo, Grafeneck, Hartheim, Sonnenstein, Bernburg e Hadamar andarono a costituire il personale anche dei centri di Belzec, Sobibor e Treblinka. Gli istigatori avevano appreso che individui scelti a caso avrebbero realizzato crimini terribili “senza scrupoli”» [p. 33]. E nei campi di sterminio «anche se i medici delle SS erano allievi degli scienziati della razza, non bisognava essere antropologi per “selezionare vecchi, donne e bambini”» [p. 426].

In questi anni si assassina senza neppure selezionare, in Medio Oriente, in Europa orientale e, un po’ e con mezzi più rudimentali, anche in quella occidentale. La formula è che si assassinano altri esseri umani per difendere ciò che siamo e abbiamo di meglio, e che sta solo a noi giudicare.

Anche oggi troppi sono solo e unicamente gli assassini. “Siamo troppi” è un modo di unirci a loro, sia pure in modo inconsapevole e involontario, forse.

 

Giuseppe Gario

 



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