14 settembre 2016

MILANO PARLA. IL LUOGO DELLE NUOVE UTOPIE

Si incontrano qui non per distruggersi ma per realizzarsi


Le città parlano con la loro aura e la loro storia, e con la parola. A Milano, in una mattina d’agosto particolarmente quieta, m’è capitato di leggere una scritta che offriva servizi qualificati di relazioni istituzionali, comunicazione, affari legali, lobbying all’insegna del luogo che non c’è, l’utopia. Un accesso materiale a Milano in un mondo anch’esso materiale, ma d’una materia, per la (forse non solo) mia generazione, tutta da esplorare nelle sue reti di relazione in continuo sviluppo e divenire spazio-temporale, per opera di servizi insediati anche a Milano.

06gario29fbNella stessa giornata ho poi letto di Mediaset-Vivendi, che di questi luoghi a diversa materialità è più d’una metafora. Mediaset vuol dire Berlusconi, da noi per antonomasia il mattone; Vivendi è Bolloré, per antonomasia la finanza in Francia e altrove. La vicenda, da seguire per tanti motivi, qui e ora e nel prevedibile futuro suggerisce qualche spunto, per dir così, terra terra. Nel senso che non basta più il controllo del territorio con le sue reti di relazione locali correlate qua e là nel mondo.

Non basta anche perché questa nuova realtà materiale utopica, a mano a mano che si sviluppa, è sempre più instabile e, senza minacciare direttamente nessuno, travolge equilibri pur consolidati e redditizi, ma meno dinamici. Il prototipo, visibile anche all’uomo della strada con un po’ di tempo e curiosità, è la nuova arte della guerra, «basata su armi mobili zeppe di tecnologia computerizzata che usa comunicazioni globali e arruola comunità scientifiche, di software e ingegneristiche tramite la Defense Advanced Research Projects Agency. Sistemi di armamento automatizzati, dai missili di crociera ai moderni droni, promettono minori perdite e attacchi più efficaci, usando sempre più comunicazioni satellitari e nuove tecnologie di mappatura per individuare i bersagli.

La crescente raffinatezza tecnologica, insieme alla fiducia nell’efficacia delle nuove tecnologie, ha fatto accettare la nuova forma di guerra. Ha creato l’immagine d’una nuova arte della guerra limitata, ‘chirurgica’, metafora che trae legittimità dalla medicina e dà l’impressione di una violenza attenta, discriminata, pianificata razionalmente e rispettosa del ‘paziente’, di contro alla violenza irrazionale del nemico, responsabile di mali intollerabili». (1). «Un critico, Paul Virilio, osserva che la nuova arte della guerra è dettata dal controllo non più del territorio ma della velocità; la guerra come ‘cronopolitica’. Il suo timore è che la guerra venga tolta dalle mani degli esseri umani per essere trasferita a macchine in grado di decidere all’istante» [pp. 128-9]. Togliere sistemi complessi dalle mani degli esseri umani significa fare a meno delle abilità e responsabilità gestionali, inclusi i gestori lenti nel sincronizzarsi con e in sistemi altri e sempre più complessi, arricchiti in continuo dalla scienza e dalla tecnologia.

È questa la leva di fondo che uniforma tutti i territori per superare ogni strozzatura di sincronia e velocità, lungo un ovvio percorso di eliminazione di ogni vincolo estrinseco alla tecnologia stessa, o meglio ai gestori delle sue punte più avanzate, con in testa il denaro.

La riflessione terra terra – anche per Milano e tutti noi che ci viviamo – è di Abhijit Banerjee e Esther Duflo, docenti di economia al MIT: in nome dell’ideale della crescita economica «le misure di coesione sociale e solidarietà, necessarie per accompagnare la globalizzazione degli scambi, la mobilità e il progresso tecnologico, che di per sé generano perdenti e vincenti, sono sacrificate nel ‘breve termine’ per restare competitivi, attirare i capitali, incoraggiare l’iniziativa, non minacciare la crescita nel ‘lungo termine’»; ma i cambiamenti necessari vanno invece nella direzione opposta, della redistribuzione, e devono essere presentati «non come sacrifici per una maggiore efficacia economica e un avvenire migliore, ma come chiave di una società più giusta e più unita, qui e ora» (2). Che è poi cronopolitica applicata a noi gente comune e nota come giustizia e solidarietà, l’utopia di sempre.

Governata nel suo insieme, e non ciecamente gestita nelle sue componenti, Milano parla di utopie che, incontrandosi, anche a Milano si realizzano invece di distruggersi a vicenda, qui e ora.

 

Giuseppe Gario

 

(1) S.J. Rosow e J. George, Globalization & Democracy, Lanham, Maryland 2015, p. 125
(2) Abhijit Banerjee e Esther Duflo, «Nous avons mille raison d’être heureux», Le Monde, 19/08/2016, p. 22



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