16 marzo 2016

VANITÀ E POLITICA


Per quale motivo una persona decide di impegnarsi in politica? Per i cattolici, che riprendono dall’Octogesima adveniens di Paolo VI la definizione di forma esigente di carità, è sostanzialmente una proiezione dell’insegnamento evangelico ad amare il prossimo, uno sviluppo di una vocazione altruista. Per i comunisti, che chiamavano il loro leader Togliatti “il migliore”, si trattava di estendere le proprie capacità intellettuali e morali alla gestione pubblica in nome degli oppressi. La lotta era la palestra che selezionava “i rivoluzionari di professione” che costituivano l’elite delle masse popolari.

09antoniazzi-09FBIn realtà nessuno fa politica senza vanità, senza il desiderio di apparire e di ricevere applausi e consensi (né più né meno come un attore sale su un palcoscenico). Il problema non è la presenza della vanità. Il problema è il non farci i conti. Il problema è l’eccesso o la solitudine della vanità. Lo vediamo in politici compulsivamente propensi verso una minima citazione di stampa, verso una comparsata televisiva. Sino ad arrivare a essere persino parodiati per questo dai giornalisti. Come in certe narrazioni su deputati che si aggirano per la buvette di Montecitorio con strategie di attrazione degne di un “Ecce bombo” di Nanni Moretti.

La vanità è un tema che segna anche il rapporto con i colleghi, i concorrenti (spesso di più quelli della stessa parte politica rispetto agli “avversari”). Rende dunque difficile anche il senso del collettivo, il gioco di squadra. La vanità, credo, supera altri fattori che i luoghi comuni considerano fondanti della politica.

Il luogo comune oltre a dire da sempre “che la politica è una cosa sporca”, oggi si sofferma sul fatto che si farebbe politica per far carriera, per i soldi, per il potere. Ma ci sono narrazioni che dicono cose diverse. I candidati alle primarie del centrosinistra milanese del 2010 erano tre signori affermati, con dichiarazioni dei redditi cospicue che corrispondevano ai nomi di Pisapia, Boeri e Onida. Tra l’altro due di essi (Pisapia e Boeri) hanno assunto ruoli istituzionali la cui remunerazione era inferiore a un decimo di quella delle loro libere professioni.

Giorgio Gori, affermato e ricco produttore televisivo, decide nel 2011 di prendersi un periodo sabbatico per dedicarsi alla politica e deve fare “la gavetta” di primariette perse per le elezioni politiche prima di vincere la corsa a sindaco di Bergamo nel 2014. Lo stesso Beppe Sala dopo l’esperienza Expo non cerca prestigiosi e ben remunerati incarichi di manager ma sceglie di mettere la faccia nella rischiosa giostra delle primarie e delle elezioni. Naturalmente a tutti viene in mente il grande precedente del Berlusconi del ’94.

Che cosa ci dicono queste storie? Certo che la debolezza della politica fa pensare ad imprenditori e manager di potervi affondare un coltello “come nel burro”. Però dice anche di un fascino della politica che non credo sia solo il gusto dell’agone. Certo la politica è anche un gioco che simula la vita, si vince, si perde, si vive, si muore. Ma soprattutto la politica offre un riconoscimento universale che non ha eguali. Puoi essere il primo tra gli architetti o tra gli avvocati, tra i manager o tra i calciatori, ma se sei il sindaco di Milano sei il primo cittadino per tutti.

Dunque ben venga la vanità se fa impegnare uomini intelligenti e capaci nella cosa pubblica. Il problema è se la vanità diviene l’unica spinta all’impegno quotidiano, se non c’è massa critica che aiuta a conoscere i propri limiti, se non c’è un’opinione pubblica che faccia da super io all’uomo solo al comando. Un antidoto? La vecchia saggezza ebraica della pratica dell’anno sabbatico. Ogni sette anni si stacca e si riparte solo dopo una lunga pausa. Cosi non avremo mostri autoreferenziali, né gente che fa della politica la sua forma di reddito. Cioè il posto fisso di Checco Zalone … .

 

Pier Vito Antoniazzi

 

articolo pubblicato anche da www.accademiafilosofiaprisma.com



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