4 marzo 2015

SPAZI PUBBLICI E PROGETTO DI SUOLO: VINCE IL PARADOSSO DELLA TECNICA


L’intervento di Luca Beltrami Gadola dedicata al rifacimento di Piazza XXIV Maggio, mi consente di portare ai lettori una riflessione di carattere più generale. Con ogni probabilità, a lavori terminati, ci troveremo di fronte a due situazioni urbane differenti e contrastanti: la piazza vera e propria (compatta e contenuta) e lo “spazio rimanente” (esteso, privo di volontà formale e di dimensioni molto più ampie). Due parti intrinsecamente divise, separate, lontane, specializzate. Nessun tentativo di far convivere funzioni e attività, con uno squilibrio anche dimensionale che appare di per sé significativo dei valori urbani considerati.

07deamicis09FBLo spazio a ridosso dell’imboccatura di Corso S. Gottardo, è a mio avviso particolarmente interessante, a partire dalla sua trasformazione da spazio verde unitario (progetto di concorso) in luogo dominato dalla sola razionalità viabilistica.

Non conosco le vicende del progetto, tuttavia sorprende un tale esito, proprio nel momento in cui la municipalità in quasi tutti i suoi atti formali promuove la necessità di progettazioni integrate, la valorizzazione dello spazio pubblico, l’istituzione di aree 30, l’uniformità delle pavimentazioni, ecc. Tracce di questi contenuti sono rilevabili nel bando per la sistemazione di Piazza della Scala, nell’aver prescelto il progetto che abolisce tutte le differenze di quota in Piazza Castello, e anche in alcuni punti dell’ottimo Manifesto della Commissione per il Paesaggio del febbraio 2010.

Non so quanta parte di responsabilità dei progettisti ci sia in questa fiera di spazi residuali e doppi cordoli, ma l’impressione è che sia il risultato non di una volontà di qualcuno, ma di qualcosa. Siamo probabilmente di fronte al fenomeno del “paradosso della tecnica”, ben spiegato da Umberto Galimberti nei suoi libri, applicato al settore della manutenzione e della costruzione dello spazio pubblico.

Oggi, come spiega Galimberti, il rapporto fini/mezzi si è ribaltato: “la tecnica non tende a uno scopo, non promuove un senso,…. la tecnica funziona e basta. Produce, all’interno di una logica deterministica perfettamente razionale, effetti irrazionali, privi di qualsiasi senso riconoscibile. La tecnica non ha fini da realizzare, ma solo risultati su cui procedere, risultati che non nascono da scopi che ci si è prefissi, ma che scaturiscono dalle risultanze delle sue procedure. La tecnica procede la sua corsa sulla base del si fa tutto ciò che si può e deve fare“. E così accade anche nella costruzione del suolo pubblico.

Legittime istanze specialistiche di settore procedono autonome e implacabili, ognuna basta a sé stessa, insieme si sommano. Il progettista, se cerca di governare il processo, si deve preparare a una lotta impari. L’architettura, luogo della sintesi formale e funzionale per eccellenza, muore. E se ciò accade in pieno centro per una grande opera dell’Expo, figuriamoci cosa può succedere negli immensi spazi senza senso delle periferie, dove la logica tecnocratica domina incontrastata, con una – a volte – spettacolare sequenza di lavori stradali (spesso per reti e sottoservizi) che si aprono e chiudono più volte nello stesso punto senza portare mai un miglioramento tangibile sulla superficie.

Quante sezioni stradali avrebbero potuto essere interamente modificate verso soluzioni più adatte e civili (per esempio per la realizzazione capillare delle piste ciclabili), se solo la continua reiterazione dei lavori stradali si fosse nel tempo inserita in un quadro di finalità note? Quanti spazi degradati delle periferie avrebbero potuto negli anni trovare – a costo zero – una nuova vita, o semplicemente un nuovo senso attraverso una avveduta regia di tutte le istanze tecniche che interessano il suolo?

Proprio oggi, alla luce di una sconcertante vittoria della tecnica insensata, appare ancora più evidente come sia necessario rilanciare la necessità, il valore, e infine “la potenza” del progetto. Solo il progetto consente di “vedere” un futuro diverso. Solo se sarà possibile vedere un futuro diverso la tecnica potrà essere addomesticata tornando a  essere un mezzo per realizzare fini.

Il disegno dello spazio pubblico inoltre, fondamentale nel definire la qualità della morfologia urbana, è uno strumento che dovrebbe essere utilizzato in modo capillare in quanto l’unico in grado di riscattare luoghi ormai smarriti. La strada, prima ancora della piazza, deve tornare a essere il primo dei nostri interessi. Non più “spazio di sacrificio” – a beneficio di qualche altra più nobile funzione – ma “luogo della visione”.

Ora più che mai abbiamo assoluto bisogno di visioni, di linee guida, di metaprogetti, di qualsiasi cosa sia capace di interpretare una scala intermedia di progetto, compresa tra le strategie e le regole del PGT e la minuta azione quotidiana di modificazione del territorio (a partire dalle SCIA) e che consenta di mettere in evidenza, finalità e obiettivi, ma anche forme e “figure urbane”. Questa scala di progetto oggi a Milano è totalmente assente e personalmente la ritengo indispensabile.

I consigli di zona – in attesa di diventare municipalità – potrebbero essere il luogo dove gli scenari si costruiscono e prendono forma, diventando da un lato finalmente parte propulsiva del rinnovamento urbano (non solo spettatori) e dall’altro vigilando affinché le enormi risorse impiegate in nome della solo razionalità tecnica vengano veicolate entro nuovi orizzonti dotati di senso e utilità per i cittadini.
Giacomo De Amicis



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