30 aprile 2014

IDEA DI CITTÀ, ALLA POLITICA LE VERE SCELTE


Approfitto dell’opportunità di ribattere al colto intervento di Cris Bono, per precisare alcuni concetti su quell’idea di città che oggi manca alla politica milanese, e di cui parlavo in ArcipelagoMilano di un paio di settimane fa.

09carusoFB16Come temevo, è passata, almeno per Cris Bono, una lettura conservatrice del mio appello a non rinunciare a dettare alcune regole morfologiche fondamentali nella costruzione (ricostruzione, trasformazione) della città. (1) Oggi non chiedo certamente che si ritorni a un piano ottocentesco di allineamenti, ma che si progetti avendo la consapevolezza di quale città sia il contesto del progetto, che non si progetti a prescindere dal luogo, dalla sua storia e dalla sua geografia.

Non un modello, quindi, ma alcune regole, cioè alcuni criteri e orientamenti, e che siano condivisi. La condivisione, questo è il punto. Perché sia tale, e non un elenco di criteri inventati da un gruppo di tecnici e intellettuali delegati allo scopo, bisogna che la politica se ne faccia carico, bisogna che la questione della forma della città diventi oggetto di elaborazione politico-culturale.

Un esempio eloquente. Alcuni anni fa ho avuto l’occasione di progettare un insediamento residenziale sul sito di un industria dimessa, in un grande comune dell’hinterland milanese. L’ufficio tecnico comunale e la commissione edilizia mi hanno chiesto ben dodici successive e diverse soluzioni planivolumetriche, da quella composta da basse cortine continue a quella di alte torri isolate nel verde e tante soluzioni intermedie. Poi hanno approvato quest’ultima, quella delle torri nel verde, quella sbagliata, perché rinuncia a stabilire relazioni con un contesto urbanizzato e disordinato, bisognoso di intensi collegamenti e della formazione di luoghi. La motivazione ufficiosa è stata: è la più moderna. E la politica, cioè la giunta municipale e il sindaco? Assenti dal confronto, perché la questione era tecnica, o al massimo culturale, non politica.

Mi chiedo: non era questa una questione importante, decisiva, per il modo di abitare quella parte del territorio? Perché la politica non deve elaborare una posizione su quale città costruire, su quali relazioni territoriali è meglio favorire? Perché limitarsi, quando si discute del PGT, a dibattere di quantità? Di quantità importanti, intendiamoci, di servizi sociali e di edilizia economica e di verde, ma sempre solo di quantità, e non della morfologia che questi interventi devono assumere. La polemica esplode sui media e si formano comitati e assemblee, quando la questione è eclatante, quando c’è in ballo la salute o il prato sotto casa. Le decisioni, invece, normalmente assunte dalle commissioni per il paesaggio, che quasi quotidianamente determinano la qualità dei luoghi pubblici e privati, rimangono delegate agli esperti e alle loro opinioni personali.

Il nostro paesaggio è ormai fatto, come afferma Bono, di una geografia che ha già consumato tutto il suolo possibile, questa è la condizione comune di tutto il territorio abitato, sia della città compatta che di quella diffusa, è per questo che si tratta di ricostruire e di trasformare, e non più di costruire ex novo. E concordo anche sul fatto che bisogna fare riferimento alla nostra capacità di leggere e rileggere – come una nuova lingua – una geografia metropolitana completamente mutata, con centralità nuove, con la convivenza stretta e contradditoria di elementi urbani e antiurbani. Ma non possiamo saltare un passaggio, quello della consapevolezza delle ragioni per cui si è storicamente determinata questa realtà metropolitana. Se non interviene la politica e non si modificano i processi (che sono economici ma anche e soprattutto culturali) che hanno determinato la diffusione insediativa, non cambia niente. Senza capire quali attese hanno determinato la diffusione, non abbiamo gli strumenti per progettare cercando di soddisfare le attese in modo alternativo.

Stiamo a guardare quello che succede e, nel migliore dei casi, quando dobbiamo affrontare un delimitato compito progettuale, cerchiamo di svolgerlo al meglio con gli strumenti culturali conosciuti e inadeguati. La politica degli interventi, di cui parla Bono, deve comportare anche un’idea sulla forma che assumeranno gli stessi interventi, cioè un’idea di città. Succede, infatti, che città dotate di efficienti servizi e con abitazioni a basso costo, città politicamente più giuste di altre, siano spesso città costruite da culture progettuali povere, prive di luoghi significativi, dove le relazioni sociali non riescono ad esprimere le loro potenzialità.

E comunque la città compatta è cosa diversa da quella diffusa, e non differisce dalla seconda solo per la maggiore densità. Se non si coglie la differenza, si disperde ogni carattere e si apre la città compatta ai processi disintegrativi della diffusione. Nella città c’è un mondo di cultura stratificata da scoprire in ogni strada, e non ci si può permettere di sconvolgere un isolato novecentesco con un ignorante intervento di sostituzione che spacca la cortina e apre alla vista pubblica i fronti interni degli edifici. Non è questione di retri, di fronti non progettati, di seconda fila. È questione di fronti progettati per la corte e non per la strada.

La bellissima novecentesca casa di Gigiotti Zanini in piazza Duse, dal fronte severamente metafisico, ha il fronte verso la corte molto diverso, espressivo e aperto, con i corpi scala rotondi e gli aggetti di scuola razionalista: rompere quell’isolato per aprire uno spazio di transito che faccia appartenere questo fronte alla strada e non più alla corte, sarebbe un errore commesso contro l’architettura e la città.

Come hanno fatto altre città europee negli ultimi anni, Milano deve trasformarsi, adeguare il suo patrimonio edilizio alle mutate attese, senza imitare modelli del passato. Per alimentare una nuova fase della cultura progettuale e mobilitare le risorse culturali necessarie, bisogna porsi degli obiettivi, elaborare un’idea di città (si pensi, per esempio, all’iniziativa ginevrina Densité – Urbanité). In assenza di un dibattito largo sul futuro della città e delle forme che deve assumere, il successo popolare di un nuovo spazio cittadino, come piazza Gae Aulenti, non può certo essere assunto come criterio di giudizio. In piazza del Duomo per l’Expo realizzeranno un progetto di orti, che avrà anch’esso un grande successo popolare, e se il Comune vi realizzasse un bosco, rimuovendo il pavimento lapideo disegnato da Portaluppi, il successo sarebbe ancora superiore …… .

 

Alberto Caruso*

 

* milanese, architetto, direttore di Archi, rivista svizzera di architettura, ingegneria e urbanistica.

 

 

(1) Nonostante gli esempi citati dell’ampliamento della Bocconi delle Grafton e di piazza Carlo Erba di Eisenmann, che sono liberissime interpretazioni, o dichiarate trasgressioni di regole. Nel primo caso, l’allineamento stradale su viale Bligny è stato subito deformato per preparare all’arretramento sull’angolo con via Röngten, e alla magistrale estensione dello spazio pubblico all’intero livello terreno dell’edificio. E nel caso di Eisenmann, è la continuità della cortina che consolida l’isolato e fa città, non certo l’allineamento. È sempre avvenuto che le regole fossero interpretate e oggetto di forzature, si pensi a casa Rustici di Terragni, in corso Sempione, dove l’obbligo all’allineamento dell’intero fronte è stato realizzato con i terrazzi, per cui lo spazio pubblico si espande dentro al recinto della proprietà.

 



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