16 aprile 2014

SINDACI TUTTOFARE PER ISTITUZIONI DA SVUOTARE


Achille insegue la tartaruga: sempre si avvicina ma mai la raggiunge. Così “piè veloce” Renzi riesce a rincorrere paradossalmente il corazzato Grillo (o viceversa farsi rincorrere, come rivendicato in Direzione PD) su un terreno che ancora di recente si sarebbe definito “populismo” o persino “antipolitica”. L’ansia di rottamare un pezzo di ceto politico, capro espiatorio di una peraltro assai motivata indignazione popolare, risulta prevalere sulla logica di un ragionato riordino dei poteri istituzionali e una coerente razionalizzazione della macchina amministrativa pubblica.

10ballabio15FBSi salvano solo i Sindaci, destinati a coprire mediante una vertiginosa “sussidiarietà verticale” i ruoli intermedi e nazionali lasciati liberi dalle decapitate Province e dallo stesso Senato della Repubblica. In realtà il “partito dei sindaci” non è una novità. Ci aveva provato con la nota perspicacia Massimo Cacciari agli albori della seconda repubblica, allorché i partiti politici tradizionali avevano dato forfait sulle macerie di Tangentopoli e l’elezione diretta dei primi cittadini aveva riattivato su nuovi binari i bisogni elementari di partecipazione e coesione sociale. Tuttavia tale “partito”, sebbene in una fase iniziale abbia svolto una funzione positiva per rompere il vecchio centralismo e avvicinare i cittadini alle istituzioni locali, ha ben presto ha esaurito la sua spinta propulsiva.

Per altro la battaglia per l’autonomia locale era stata a lungo un tema della sinistra contro il centralismo originario, che aveva guidato l’unità nazionale (Cavour e Mazzini versus Gioberti e Cattaneo) proseguito col fascismo ed anche post-fascismo centrista preoccupato di non lasciare troppo liberi i comuni e le regioni “rosse” (tanto che Mario Scelba definì la Costituzione “una trappola”). Con la “seconda repubblica” tuttavia la situazione si è ribaltata: la bandiera del “federalismo” e similari, nonché dell’autonomia esasperata dei comuni viene issata dalla Lega con la parola d’ordine “ciascuno è padrone in casa propria”. Fino a esercitare una vera e propria egemonia nel campo tanto da indurre il primo centro sinistra boccheggiante a varare una riforma del Titolo V della Costituzione ambigua e contraddittoria, in particolare circa il rapporto stato-regioni fonte di successiva confusione e conflitti di competenze.

Ebbene questa parte del Titolo V trovò purtroppo immediata attuazione, generando nuovi centralismi regionali insieme a ripetuti fenomeni di sprechi e scandali, mentre l’altra parte riguardante gli “enti intermedi” è rimasta lettera morta. Le Città metropolitane sono rimaste al palo mentre le Province, invece di assumere ruolo politico e poteri di coordinamento sovraordinati rispetto ai Comuni, si sono semplicemente moltiplicate di numero pur rimanendo politicamente marginali e funzionalmente quasi inutili. Pertanto ora è facile volerle svuotare sopprimendone gli organi politici elettivi e il rilievo costituzionale. Al contrario l’autonomia comunale si è paradossalmente accresciuta in misura inversamente proporzionale alla disponibilità di risorse trasferite dal centro. Il patto scellerato tra Stato e comuni si è tacitamente attuato: taglio delle risorse contro libertà pressoché assoluta di disporre della città e del suo territorio; dunque fonte di diffusi disastri urbanistici e ambientali e conseguente bolla finanziario – immobiliare responsabile in gran parte della presente e perdurante crisi economica e sociale.

Come se ne esce? Il buon senso suggerirebbe di invertire la tendenza: riequilibrare la distribuzione dei poteri affidando un ruolo di coordinamento cogente, nelle materie cosiddette di “vasta area”, da affidarsi a città metropolitane autentiche e nuove province riaccorpate (vedi tentativo ex decreto Monti) elettive e autorevoli. Capaci di comporre la conflittualità tra comuni, spesso concorrenti tanto nella gara (spesso al ribasso) per aggiudicarsi investimenti e insediamenti residenziali commerciali e pseudo – produttivi quanto nel gioco di refilare presso i reciproci confini discariche e inquinamento da traffico mediante apposite “tangenzialine”.

Invece le riforme in fieri paiono confermare e aggravare il verso “perverso” già in essere. Anarchia comunale, solo temperata dagli incentivi alle fusioni e alle unioni. Organi autoreferenziali di Sindaci seduti a tempo perso dentro fasulle città metropolitane, ex-province indebitamente proliferate e posticcio Senato delle autonomie. Rinuncia a efficaci poteri di programmazione e coordinamento in importanti aree intermedie tra grandi regioni e comuni. Il tutto all’insegna della “rottamazione” di forme istituzionali effettivamente ammaccate e inceppate, che tuttavia richiederebbero competenti interventi di “revisione” e “riparazione”: operazioni che distinguono in ultima istanza il meccanico dallo sfasciacarrozze.

Valentino Ballabio



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