16 ottobre 2013

EXPO E NUTRIZIONE: DOPO IL MOTTO IL TRADIMENTO?


È incongruo un mercato, per di più globale, che invece di soddisfare i consumatori li impoverisce sempre più. Implosa la burocrazia sacerdotale sovietica che divinizzava il lavoro e deprimeva il consumo, il consumatore sembrava sovrano. Ma l’alternativa si è rivelata anch’essa una burocrazia sacerdotale che divinizza i soldi e deprime consumo e lavoro. Le due burocrazie si giustificavano a vicenda e la scomparsa dell’una ha assolutizzato – globalizzato – l’altra, anch’essa però a rischio di implosione. La new economy elettronica, l’immobiliare, la finanza, oggi la sicurezza, motore del business nella guerra infinita contro tutti: lo scoppio seriale di bolle via via più ingovernabili e gravi annuncia una tempesta inflattiva perfetta, in economia, e una tempesta perfetta pura e semplice per il resto. Il collasso rivela due truffe: il lavoro è fare del proprio meglio, non fare i servi; il mercato è fare scambi, non fare soldi.

10gario35fbE a Milano, nel nostro piccolo, che fare? Giorni fa a New York ho visto affollati a ogni ora di ogni giorno i locali con otto vetrine di Eataly, tra la 23a strada e Broadway, dove si mangiano, studiano, acquistano alimenti e cucina italiani. A Monticello, Florida, ho fatto colazione a chilometro zero – tostatura caffè, latte, miele, dolci, pane – buona da commuovere, in un locale con biblioteca comunitaria a libero scambio e Cucina Italiana nella emeroteca.

A Milano la lingua universale del (buon) cibo ha un appuntamento globale nel 2015, nella veste di un’Expo che sembra parlare di tutto, salvo che della sua ragion d’essere: nutrire l’umanità. Eppure da qui emerge il mondo nel collasso archiviato della burocrazia che ha divinizzato, a suo beneficio, il lavoro (altrui) e da quello incipiente della burocrazia antagonista che, per intascarli, divinizza i soldi (altrui). Il mondo dove tutti possono sperare di vivere con dignità, nutrirsi ma non solo, perché la sostanza del cibo è cultura – saper fare e imparare dalla esperienza – e la cultura non è solo cibo, come ci è stato detto.

Con l’Expo, Milano ha l’opportunità di aprire la porta a tutti coloro (non moltissimi) che hanno qualcosa di significativo da testimoniare, dire, fare in una umanità affamata di conoscenza, giustizia e futuro, oltre al cibo. Noi italiani vi apparteniamo come ex-potenza economica. Eurostat scrive che, a parità di potere di acquisto, nel 2010 il reddito pro-capite lombardo è al 27° posto tra le regioni d’Europa, vicino a Paesi Baschi, Karlsruhe e Tirolo; lontano invece da Londra, Bruxelles, Parigi, Stoccolma, Vienna, ma anche Bratislava e Praga; e inferiore a Bolzano e Valle d’Aosta, a statuto speciale è vero, ma lo sono anche Trento, Sardegna e Sicilia, che stanno sotto. Bilancio ben magro per la Lombardia, tra i quattro motori d’Europa prima del rampante ventennio italiano a conduzione lombarda.

Milano può ora porsi al centro di una questione a sua volta centrale nel mondo, perché riguarda miliardi di persone, molto più della moda e comunque con essa compatibile. È l’occasione per essere globali nei contenuti oltre che nelle confezioni, memori dei mondiali di calcio che avrebbero dovuto portare a Milano tutto il mondo, che chissà perché non venne.

Sempre a New York ho ascoltato la riflessione di un sacerdote indiano (cattolico, dall’India) sul passo del ricco epulone: si tratta non di quanto diamo agli altri, ma di quanto teniamo per noi stessi. In questo senso stiamo diventando, certo senza volerlo, tutti fratelli o almeno lontani cugini in povertà. Grazie alla nutrizione del mondo, non all’Expo, Milano è il luogo e il tempo per cambiare rotta. Ne ha l’opportunità e quindi il dovere, come una impresa che non si lascia sfuggire una innovazione fondamentale. Senza spingerci troppo in là, è un dovere economico, perché gli economisti sanno per esperienza e scienza che non esistono pasti gratis.

 

Giuseppe Gario

 



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