17 luglio 2013

PD AMICO MALATO


La crisi del Pd, ancora una volta drammaticamente emersa nelle ultime vicende parlamentari, lascia sgomenti: molti guardano a questo Partito come a un amico malato, come a un amico in preda a disordine mentale (Eugenio Scalfari La Repubblica di domenica 14) e caduto in depressione, ora preda del più cupo sconforto, ora preda di momenti di esaltazione. Nel mondo della sinistra, in particolare quella arancione milanese, da sempre nei confronti del Pd – l’indispensabile compagno di strada per una sinistra di governo – c’è un modo di guardare a questo Partito al massimo con una sorta di curiosità antropologica: lo testimonia l’ultima intervista rilasciata da Franco D’Alfonso ad Affari Italiani le scorse settimane.

Noto di passaggio che quest’atteggiamento è tipico degli ultraquarantenni, di tutti quelli che hanno vissuto la fase più acuta della crisi dei partiti dopo Tangentopoli, difficile trovarlo tra più giovani. Le ragioni sono ovvie, un passato PCI – PDS – DS di rivendicazioni di diversità spesso smentite dalla storia. Se vogliamo che qualcosa cambi e che ci sia un futuro per una sinistra riformista non c’è nulla di più sbagliato di tutto questo. Nei confronti di un Partito amico ma malato bisogna assumere un atteggiamento che, se fossimo in periodo elettorale, chiameremmo di panachage o di voto disgiunto: lo scegliere di sostenere con una preferenza un candidato per la cui lista non si vota. Vecchio strumento quello del panachage, che non tutte le leggi elettorali ancora prevedono (in Svizzera e in Francia se ben ricordo e solo per consultazioni comunali e da noi anche per le regionali) con qualche difetto ma anche un grande pregio: in caso di coalizione puoi promuovere tra i candidati di un Partito alleato chi ti è congeniale, in caso di opposizione puoi in qualche modo promuovere nella compagine avversaria un candidato verso il quale nutri stima.

Il panachage è la vittoria dei cittadini sulle burocrazie di Partito. Il panachage verso il Pd può, anzi deve in questo momento, divenire un atteggiamento psicologico. Le ragioni sono molte: ne elenco solo alcune; il Pd, piaccia o non piaccia, sia si preferisca un Partito leggero sia un Partito molto strutturato (anche su questa questione vale la pena di esprimersi), è l’unico vero grande Partito della sinistra; interessarsi dei fatti interni al Pd non è ingerenza ma attenzione a un processo di trasformazione che ci si augura conduca questo Partito fuori dalla crisi che lo attanaglia, attenzione che porta anche a manifestare preferenze tra le sue diverse opzioni organizzative e programmatiche: l’obbiettivo è facilitare o quantomeno porre su basi chiare i successivi accordi di coalizione; indurre la componente più conservatrice della dirigenza del Pd ad aprirsi il più possibile alla società civile: le primarie aperte ai soli iscritti non vanno in quella direzione.

Per parte sua il Pd non avrebbe alcuna ragione di risentirsi per questo interesse nei confronti della sua vita interna: vuole o non vuole ricoprire il ruolo di più importante Partito della sinistra? Pensa ancora di cullare l’effimero e inattuale sogno di diventare un Partito maggioritario? Di diventare la “balena rossa”? Ecco forse questo è il primo nodo da sciogliere, forse anche prima di adottare un atteggiamento del tipo panachage e dunque di scegliere quali donne e uomini e del Pd vadano sostenuti da parte del popolo della sinistra. Per concludere, o a sinistra si apre un confronto più attento agli obbiettivi comuni e meno alle rivendicazioni di storie personali o l’unica speranza di vittoria resta solo l’attesa dello spappolamento finale della destra berlusconiana, se mai ci sarà. Pessima vittoria quella per abbandono dell’avversario, soprattutto quando un terzo degli italiani non va al voto. Ma per quanto ancora non voterà? Aspettando chi?

Luca Beltrami Gadola



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