26 giugno 2013

FARE UNA RIVOLUZIONE: TORNARE ALLE “BASSANINI”


Si ricomincia. Tra comitati di saggi e commissioni bicamerali riparte il “gioco alle riforme” politiche e istituzionali. Col rischio fondato, visti i precedenti, che qualora si arrivi alle caselle “dimezzare parlamento e parlamentari” e “abolire le province” come nella pista dell’oca si ritorni al punto di partenza. Sarebbe invece più utile, purché si voglia far sul serio, recuperare l’impianto di leggi già approvate e pubblicate – ma spesso rimaste sulla carta – in particolare negli anni novanta: dalla142 e 241 del 1990 alla contraddittoria modifica del Titolo V Costituzione del 2001. Nel bel mezzo spiccano le allora celebri, ma presto dimenticate e snobbate, “leggi Bassanini” che tuttavia costituirono, e a giudizio di chi scrive costituiscono tuttora, l’unico tentativo di dotare di senso e ricondurre sotto un disegno coerente e moderno (ma non necessariamente prono alle pseudo-virtù privatistiche e mercatiste allora e tuttora prevalenti) la riforma dell’ordinamento istituzionale e dell’organizzazione pubblica.

In realtà di tali leggi (*) è mancata una “lettura di sinistra”, o forse semplicemente una lettura, da parte di una politica debole e spesso ignara, che ne ha pressoché delegate l’elaborazione e l’attuazione alla corporazione giuridico-burocratica, ben felice a sua volta – attraverso un abile gioco di applicazioni e disapplicazioni – di farne uso “pro domo sua”. Cosicché è passata, nella mentalità corrente del corpo politico della “seconda repubblica”, una vulgata tendenziosa, tesa a smontarne l’efficacia spesso rimpiangendo apertamente le vecchie norme e prassi. Proviamo allora a richiamarne i fondamentali, utili a orientare – anche gradualmente ma dentro coordinate chiare – una riforma plausibile dello Stato e della pubblica amministrazione. Evitare la “tela di Penelope” di norme di semplificazione che complicano e azioni non coordinate che si annullano a vicenda o creano danni collaterali (es. purtroppo d’attualità: l’impiego degli oneri di urbanizzazione nella spesa corrente dei bilanci comunali!). Proviamo dunque a trarre alcuni spunti in estrema sintesi.

Passaggio da un modello di Stato verticale e dicasteriale, di origine burocratico-militare, funzionante per “competenze” formali, a uno orizzontale e comunitario, capace di perseguire i fini di interesse pubblico con strumenti flessibili e “orientati al risultato”. La riduzione dei Ministeri ha lo scopo esemplare di ridurre o eliminare doppioni e sovrapposizioni, conflitti di competenze o scarico di responsabilità, favorendo la coerenza dell’azione di Governo. Analogamente la Giunta Comunale diviene organo collegiale, di confronto e raccordo tra i diversi rami dell’amministrazione. Gli “assessorati” scompaiono dall’ordinamento, insieme alla firma sugli atti amministrativi dei singoli assessori divenuti referenti e collaboratori del Sindaco direttamente eletto (ma purtroppo non dalla mentalità politico/burocratica ancora oggi prevalente: appaiono tutt’oggi avvisi e documenti intestati “Assessorato a questo o a quello”!). L’introduzione della figura del “direttore generale” tende inoltre a garantire il coordinamento funzionale della struttura e il tramite tra una univoca volontà politica e l’apparato operativo.

Lo stesso modello istituzionale di Ente locale prevede una distinzione di ruolo tra l’assemblea elettiva, il Consiglio Comunale, cui spettano poteri di “indirizzo e controllo”, attraverso atti programmatici e regolamentari, e quelli dell’esecutivo, affidati al Sindaco, che né è responsabile in quanto rappresentante legale e capo dell’amministrazione. Il Consiglio ha dunque dignità almeno pari a quella del Sindaco e certamente superiore a quella degli assessori non eletti. Invece nella prassi corrente accade che i partiti designino i personaggi ritenuti più importanti nelle giunte e quelli meno nei consigli (spesso facendo dimettere i primi da questi ultimi all’indomani dalla loro elezione con tanto di preferenze!). Questo comporta un sostanziale svuotamento della funzione democratica dell’assemblea, in particolare del ruolo dei consiglieri di maggioranza (come lamentato su queste colonne a proposito del consiglio comunale qui più notevole), estromessi dalla partita tra minoranza consiliare da una parte e sindaco e giunta dall’altra, relegati al ruolo passivo di spettatori più o meno “tifosi” di questi ultimi.

Se la responsabilità delle finalità è esclusiva degli organi politici, l’organizzazione è strumentale agli obiettivi, non più autoreferenziale. La gestione viene interamente affidata agli apparati, che rispondono dei risultati. Il programma degli organi esecutivi è la sostanziale attività amministrativa da realizzare nel tempo dato. Il baricentro si sposta dalla perfezione formale dell’atto alla efficacia sostanziale dell’azione. Il “fattore tempo” (time is money) entra per la prima volta nella pubblica amministrazione, superando finalmente quella che Massimo Severo Giannini aveva denunciato “tardocrazia” ovvero “lentocrazia” sinonimi di burocrazia. Condizione per il successo del nuovo modello sarebbe stato tuttavia il mutamento del clima civile e morale: esiziale la sovrapposizione del nuovo al vecchio, senza superamento netto di vecchie e radicate abitudini e convinzioni. Come purtroppo si è invece ampiamente sperimentato ex tunc et nunc!

Sussidiarietà, adeguatezza, differenziazione. Le novità introdotte nel modello cognitivo e organizzativo della nuova pubblica amministrazione riguarda non solo l’interno ma anche il rapporto delle istituzioni tra di loro. La sussidiarietà verticale (quella orizzontale non è presente nelle leggi in questione, ma solo nella bozza della bicamerale D’Alema e poi nella modifica del Titolo V nel finale della legislatura-Ulivo) rappresenta il rovesciamento radicale del modello di Stato ereditato dallo statuto albertino. La sovranità appartiene al popolo a partire dal basso, dal Comune “rappresentante la comunità locale” (art. 2 della L. 142/90) per risalire – e non più discendere – attraverso regione, stato nazionale, comunità europea e chissà mai, in un radioso domani, a un governo democratico mondiale, globale al pari dell’economia e della finanza! Ma per restare nella nostra modesta visione di medio raggio si tradurrebbe in istituzioni più snelle e funzionali attraverso: decentramento dei mega-comuni e fusione dei piccoli, accorpamento delle province e avvio delle città metropolitane, snellimento delle regioni e dello stesso Stato. E rivincita, indispensabile per affrontare la crisi presente, delle dimenticate tre “e” (efficienza, efficacia, economicità).

 

Valentino Ballabio

 

 

(*) L. n.59 del 15.3.97 e n.127 del 15.5.97; e D.Lgs. 80 del 31.3.97. Per un commento più articolato vedi anche arcoresiste.minilab.org al capitolo “leggi le leggi”.



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