19 giugno 2013

ECONOMIA: RITORNO AL FUTURO. SI PUÒ FARE


Di nuovo in una selva oscura, per orientarci dobbiamo guardare non a destra o sinistra, in alto o basso, bensì fuori. Lo abbiamo fatto ispirandoci alla Costituzione di Weimar, migliorata, e al mondo libero, migliorato dal progetto di una Europa unita. Con risultati a suo tempo miracolosi. Daniel Pinto è cofondatore e presidente-direttore generale di Stanhope Capital, uno dei principali gruppi indipendenti di gestione e consulenza azionaria in Europa. Ha fondato New City Initiative, un think tank per riportare la finanza a servizio dell’economia reale. Jean Pisani-Ferry è economista e direttore del think tank europeo Bruegel. Da fuori, hanno qualcosa da dirci.

Pinto (Le choc des capitalismes, Odile Jacob, Paris 2013) dice che la nostra crisi industriale è stata accelerata dalla crisi finanziaria del 2007, ma è nata dalla stessa mentalità. Le nostre imprese non sanno più costruire il futuro con visioni, progetti e investimenti di lungo termine, perché da troppo tempo sono vacche da mungere (cash cows, in gergo) a beneficio di investitori istituzionali (fondi pensioni, assicurazioni e, peggio, hedge funds e fondi di trading) subentrati agli imprenditori veri che nell’azienda mettono faccia e soldi. L’opportunismo non innova né progetta, non fa impresa.

Tipicamente imprenditoriale, l’azienda familiare è quasi scomparsa in occidente, mentre a est e sud ‘imprenditori-proprietari’ governano grandi gruppi audaci e soprattutto pazienti, sul modello che fu la nostra gloria. Guidati non dai risultati trimestrali, ma dalla volontà di costruire il futuro in modo determinato e premeditato, si chiedono solo come diventare leader di settore in cinque o dieci anni, orizzonte oggi inesistente in occidente, nelle imprese e ancor più in politica, dimentichi che determinanti sono le qualità umane e le sinergie manageriali e culturali, come sanno invece le imprese indiane e cinesi.

A parità di capacità intellettuali e manageriali, imprenditori e famiglie legano i loro destini alle aziende: personalmente molto coinvolti, creano un senso di continuità importante per dipendenti, clienti, fornitori; licenziano molto meno dei concorrenti quotati non familiari, perché sono più liberi di ridurre i loro margini in periodi di crisi. In Germania, nel 2008, la disoccupazione si è fermata all’8,1% perché le imprese familiari ancora dominanti hanno ridotto temporaneamente margini e dividendi, aumentando lealtà e produttività di dipendenti, clienti e fornitori, molto vicini a gruppi familiari sviluppati su relazioni tessute nei decenni, ecosistemi in grado di affrontare le crisi con più flessibilità e serenità. La capacità di assumere rischi calcolati è il loro maggiore vantaggio, un successo che viene non dalla dinastia, ma dalla formazione di nuovi imprenditori.

Pinto conclude che lo choc della crisi sta demolendo i tabù degli anni 1980 e consente di riformare i rapporti di forza fra mercati, imprenditori, Stato. Ognuno deve fare il proprio lavoro e lo Stato, in particolare, non deve essere “meno” o “più”, bensì “meglio”, perché è il solo in grado di mobilitare le risorse necessarie, soprattutto nella ricerca, spesso oltre la portata e volontà dei privati. Contano i comportamenti e le motivazioni di ciascuno di noi. Per sopravvivere dobbiamo di nuovo imparare a creare.

A sua volta Pisani-Ferry (La crise de l’euro et comment nous en sortir, Pluriel, Paris 2013) ci dice che gli scommettitori sulla fine dell’euro hanno sottovalutato la notevole capacità di sopravvivenza dimostrata in questi tre anni dall’Europa. L’euro è un fattore particolarmente potente di integrazione e realizza una comunità di destino, ma non ancora di progetto, che sta nel completare l’unificazione monetaria mettendo in comune tutto ciò che la fa funzionare, non di meno né di più. Non gli Stati Uniti d’Europa, ma una maggiore integrazione economica; un federalismo bancario e finanziario senza la perversa interdipendenza tra debiti pubblici e bancari; una unione di bilancio sui principi di solidarietà e di responsabilità; e una unione politica, non tecnocratica.

I cittadini europei non sono stati preparati a cambiamenti di tale ampiezza (lo sappiamo bene in Italia), ma, come nell’impresa l’imprenditore, a decidere sul futuro sono oggi anzitutto i tedeschi e i francesi. I primi affrontano molto seriamente la questione europea, che manca di respiro in Francia. La Germania potrà però accettare di condividere i benefici legati alla sua reputazione, rinunciando a nuove tentazioni egemoniche, se avrà nella Francia un partner a tutta prova.

Alle prese con una crisi che si sta annunciando anche in Germania, il presidente francese François Hollande ha per la prima volta aperto a una possibile (e necessaria) integrazione politica. Anche in questo caso lo choc fa crollare i tabù e apre nuove prospettive e, se nulla è predeterminato, molto dipende da (poche) persone di buona volontà, come sempre.

E noi? Per creare lavoro dobbiamo fare leva sui nostri imprenditori, ancora molto importanti e con forte presenza di aziende familiari. In un contesto di regole europee darebbero molto. Sostituire le regole nazionali comporta però, come dice Pisani-Ferry, un pragmatico e effettivo governo europeo, l’unica reale opzione di riforma della politica italiana, che nelle sue espressioni più vampiresche ha vampirizzato i propri elettori e il nostro establishment, che teme l’Europa, fa propaganda contro e agita fantasmi come se ci credesse. Ciò che per noi cittadini è riduzione del danno emergente, è per tutti costoro lucro cessante.

Oltralpe la domanda è quanti francesi si sentano davvero europei. Data anche la perfomance della start-up parlamentare *****, da noi è quanti italiani vogliano lavorare, inclusi i macrosettentrionali eredi di laboriosi piemontesi lombardi veneti. Sul versante piemontese amici medici ci informano che il presidente Cota e l’assessore Monferino spiegano che la Regione è “tecnicamente fallita”. E un giovane amico scrive della consapevolezza nel suo giro che “in questo paese dobbiamo saper sconfiggere il piccolo Berlusconi che è dentro ognuno di noi”. Ma su Il Sole 24 Ore il direttore Roberto Napoletano registra la domanda di un liceale brianzolo: “Scusi direttore, mi tolga una curiosità, ma perché dovremmo pagare sempre meno i politici, non c’è il rischio che si perdano i migliori?”; e commenta: “Negli occhi di Federico scatta la scintilla, l’ho vista io, di notte, a Merate. Parlava più delle parole” (12/5/13, p. 27). Da vent’anni politici sempre più incapaci si remunerano sempre di più e, se si va avanti così, una nuova generazione li vuole raggiungere. Abbiamo il record europeo di giovani che non studiano né lavorano (23,9%), eppure aumenta la qualità percepita della vita, se si prescinde dal lavoro (Il Sole 24 Ore, 23/5/13, p. 6). Che sia accidia?

Da fuori, Pinto e Pisani-Ferry dicono cose molto utili a chi di noi vuol lavorare davvero guardando a cinque/dieci anni, con l’ambizioso progetto europeo sul quale mettere faccia e soldi. Il contrario di quanto si è fatto negli ultimi vent’anni, perdendo faccia e soldi.

Giuseppe Gario



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