IL FIGLIO DELL’ALTRA

di Lorraine Lévy [Le fils de l’autre, Francia, 2012, 105′]

con Emmanuelle Devos, Jules Sitruk, Pascal Elbé, Mehdi Dehbi, Areen Omari

 

Joseph (Jules Sitruk) è un giovane israeliano, figlio di un ufficiale dell’esercito, pronto per il servizio militare in una delle migliori sezioni speciali. Gli esami del sangue, che precedono i tre anni di leva, attirano però l’attenzione di sua madre. L’incompatibilità del suo gruppo sanguigno con quello del padre rivela ai genitori la più sconvolgente delle notizie. La notte della nascita di Joseph, in un ospedale di Haifa, il bambino è stato scambiato per errore con Yacine (Mehdi Dehbi), figlio di una famiglia palestinese e musulmana, residente nei territori occupati della Cisgiordania.

A quasi vent’anni, il giovane ebreo si scopre arabo di nascita e il giovane arabo, ebreo. Come si diventa l’eterno nemico di se stesso? Lorraine Lévy ci offre risposte differenti. Le madri (Emmanuelle Devos e Areen Omari) si avvicinano da subito, le loro figure distensive raffigurano la speranza che l’unione tra le famiglie riesca a prevalere sull’odio e la divisione. I padri, al contrario, restano rinchiusi nei loro rispettivi orgogli e dolori, si abbandonano al silenzio più impenetrabile.

Dopo l’evidente stupore iniziale, Joseph e il suo alter ego Yacine decidono di esplorare i rispettivi universi con uno sguardo ancora scevro di preconcetti, desiderosi di scoprire questa loro “doppia” natura tra l’imbarazzo della gente e la collera del fratello palestinese. Il film si concentra quindi sulla capacità dei due giovani di annullare le differenze, di sopravvivere allo sradicamento delle proprie radici, in un luogo in cui queste determinano incondizionatamente nazionalità e religione.

Il figlio dell’altra si aggiunge quindi all’elenco di film (Il giardino di limoni è il più rappresentativo di questa ormai lunga lista) che hanno provato a tracciare il sentiero del dialogo e del rispetto tra israeliani e palestinesi. La regia sensibile e attuale di Lévy non riesce però a dare al film l’intensità che avrebbe meritato. La sceneggiatura, sempre abbastanza prevedibile, si appoggia sui numerosi cliché e sui buoni sentimenti che creano un’atmosfera fiabesca nascondendo eccessivamente la crudeltà e la drammaticità di questo eterno conflitto.

In sala a Milano: Anteo, Apollo.

Il 29 marzo, Enzo Jannacci ha lasciato Milano e tutti noi un po’ più soli. La sua natura di artista poliedrico gli ha permesso di recitare in molte opere cinematografiche, alcune davvero imperdibili e indimenticabili come L’Udienza di Marco Ferreri. Per ricordarlo, ho scelto una battuta de La bellezza del somaro di Sergio Castellitto. “Cardiologo?” gli chiede un curioso Marco Giallini. “No, no, no, no. Io sono un conoscitore del cuore non come muscolo ma piuttosto come pianeta”.

Marco Santarpia

 

 

LA MIGLIORE OFFERTA

di Giuseppe Tornatore [Italia, 2013, 124′]

con: Geoffrey Rush, Donald Sutherland, Liya Kebede, Sylvia Hoeks

 

«In ogni falso, si nasconde sempre qualcosa di autentico», è questo il leitmotiv che tiene sui binari la sceneggiatura di La migliore offerta scritto e diretto da Giuseppe Tornatore. Virgil Oldman (Geoffrey Rush) è uno stimato battitore d’aste ossessionato dalle donne: l’unico rapporto che non lo turba è lo sguardo dei quadri, di valore inestimabile, raffiguranti volti femminili e segretamente conservati in una stanza. La stanza, ovviamente, è protetta da un sistema di sicurezza che anche Ethan Hunt faticherebbe a districare. Poi, cosa potrebbe accadere a un metodico e attempato uomo vergine che ripudia le donne? Si innamora. Claire (Sylvia Hoeks) è una misteriosa ereditiera, giovane e bella, che soffre di agorafobia e da dodici anni non ha contatti con il mondo e con le persone.

La sceneggiatura continua per più di un’ora e mezza a indagare la relazione tra i due personaggi disturbati, ondeggiando tra il dramma e il thriller aiutata dalle musiche di Ennio Morricone, nel tentativo di creare un’attesa nello spettatore che gli stimoli il desiderio della visione. Ma tutto pare un po’ premeditato, intuibile, come una partita a carte scoperte. Tornatore si rifugia in modelli preesistenti già codificati e, forse, si dimentica che quel desiderio arriva da uno spettatore intelligente, disposto a farsi ingannare dalla forza del cinema ma non dall’arroganza del regista.

Come nel precedente Baarìa [Italia, 2009] c’è un sottofondo ricco di spunti cinematografici interessanti che, però, faticano a esser sviluppati concretamente. Come tante idee mai portate a termine: si consumano rapidamente. Ne è d’esempio il tentativo di giocare con realtà e finzione, vero e falso, autentico e inautentico: gioco che, se fatto con ironia e modestia, si trasforma in genialità.

Come non ricordare il prestigio di Orson Welles in F come Falso [1974] che parlando di opere d’arte dice: «molte sono le ostriche, ma le perle sono rare». Appunto.

Paolo Schipani

In sala: Novate Milanese, Sala Ratti Legnano.

 

questa rubrica è a cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org



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