20 marzo 2013

PIAZZA GAE AULENTI UN GIUDIZIO SOSPESO


L’hanno inaugurata con la benedizione delle autorità civili e religiose proprio nel giorno in cui i milanesi sono in festa, Sant’Ambrogio. E, si diceva nei mesi precedenti, l’avrebbero perfino intitolata a una delle figure più care agli abitanti di questa città, il cardinal Martini. Hanno poi optato per Gae Aulenti, nome dell’architettura ambrosiana noto a livello internazionale ma con un appeal un po’ meno popolare. E così sembra essere il carattere della nuova piazza: nota, appunto, ma poco popolare.

Arrivando da corso Como ad accoglierti è uno spigolo, assai più acuto di quelli che talvolta ti trovi di fronte nelle città medievali. Nessun rimando all’ottocentesco arco di piazza XXV aprile, dall’altro lato del corso: troppo banale, chissà. Sulla sinistra, leggermente incassata, la stazione di Porta Garibaldi si lascia intravedere con la solita confusione di macchine e persone sotto la sua grande pensilina a sbalzo. A destra, invece, troneggia sinuoso e lucente il cuore di Porta Nuova: enorme intervento edilizio realizzato nel grande sterrato delle ex Varesine dove per anni giostrai e circensi hanno giocato con lo stupore dei bambini e dove, nelle nebbie notturne, non mancavano divertimenti per i più grandi.

Da lì, da quello spigolo, comincia una salita che nella placida Milano non ti aspetti. Sul fondo, in alto, sorge una specie di cittadella che contiene la nuova piazza. Le fattezze domestiche di corso Como sono alle spalle. Certo, permangono rassicuranti cortine ai lati della strada, così come i toni caldi degli edifici e rapporti spaziali tutto sommato proporzionati e a misura d’uomo. Le architetture però sembrano irrigidirsi, disarticolarsi nelle geometrie, aprirsi un po’ sguaiatamente nelle vetrine e negli alti ingressi con lunghi maniglioni di acciaio. Insomma, sarà perché tutto è ancora nuovo e in gran parte disabitato, sarà per la dilagante estetica da boutique, ma da quel momento avverti un senso di estraneità che non ti abbandonerà più.

Si raggiunge così la cima. Tutto sembra fatto a regola d’arte e con buoni materiali. Un ponte – da cui si scorgono appena i binari del tram che passa sotto e sprazzi della città che sta intorno – introduce a una sorta di atrio dove un foro bislacco lascia vedere un po’di cielo e tubi di ottone ai lati di una balaustra ti fanno ascoltare ciò che succede in «luoghi e spazi dell’edificio» che paiono in fondo a un pozzo. L’arrivo a piazza Aulenti è qualcosa di molto lontano da quella poetica «ascensione al Monte Stella» di cui scrisse un visionario Piero Bottoni mezzo secolo fa. Qualcosa di diverso anche da quello alle zone fortificate di alcune città europee, alla michelangiolesca piazza del Campidoglio o al Partenone.  A Porta Nuova, infatti, la vista non abbraccia l’orizzonte e sotto ai piedi non senti la roccia compatta ma il cemento. Un grumo di migliaia di metri cubi di parcheggi, centri commerciali ancora chiusi e non si sa cos’altro sono il fondamento fisico e ideale della nuova piazza, la concreta rappresentazione dell’idea di città e luogo collettivo della nostra società.

Finalmente lo spazio si apre generoso di fronte al visitatore. I riflessi delle pareti in vetro e acciaio dei grattacieli e quelli di uno specchio d’acqua tripartito al centro della piazza ne moltiplicano le dimensioni e generano un’insolita luminosità. La totale assenza di traffico e il suo configurarsi come un grande ventre la rendono pronta ad accogliere il gran numero di cittadini che, in uno dei primi sabati pomeriggio di sole sul finire dell’inverno, si aggira ammirato sotto le grandi pensiline trasparenti che la circondano. Ad attrarre lo sguardo – soprattutto quello di quanti si fanno impressionare dalle potenzialità delle tecnologie costruttive – è la spiccata verticalità della guglia incardinata all’angolo di un edificio: si erge a fulcro del luogo e sembra voler rivaleggiare con quella della Madonnina.

«Una piazza che vive» si legge su un cartello. Ed effettivamente è così, almeno oggi che giovani animatori fanno divertire i bambini creando strani animali con palloncini colorati. Difficile dire quanto – finiti gli spettacoli appositamente organizzati e passata l’euforia della novità – durerà questa gioiosa atmosfera di festa. Ad affacciarsi sulla piazza sono palazzi destinati prevalentemente a uffici. Le case stanno sorgendo più in là, lontane da questo spazio collettivo. Inutile dunque sperare in un geranio su un davanzale o in un panno steso al sole. Difficile anche immaginare ragazzini sotto casa per quattro tiri al pallone. L’artificiale ricerca di vitalità stride con la fattuale negazione di una quotidianità che invece caratterizza centinaia di piazze italiane che continuiamo ad apprezzare. Lo stesso si può dire della stazione di Porta Garibaldi e della multiforme umanità che la popola giorno e notte: anche questa è tenuta a debita distanza, laggiù in fondo a una scalinata, al di là del flusso di traffico.

Intorno è tutto un cantiere. Sagome di corpulenti edifici indifferenti a qualsiasi contesto si fregiano di nomi bizzarri: “bosco verticale”, “corte verde” e altri dello stesso tenore che a tutto rimandano fuorché a quel che dicono. Poi ci sono le vecchie case, attonite per ciò che succede intorno a loro, con finestre che sono finestre, balconi che sono balconi, negozi e botteghe artigianali aperte sui marciapiedi o verso i cortili. E muri ciechi ai fianchi, tangibile testimonianza di un racconto interrotto, di un dialogo oramai impossibile o, almeno, improbabile.

 

Renzo Riboldazzi



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