20 marzo 2013

sipario


 

LA SEMPLICITÀ INGANNATA

Satira per attrici e pupazze sul lusso d’esser donne

liberamente ispirato al saggio Lo spazio del silenzio di Giovanna Paolin

di e con Marta Cuscunà  assistente alla regia Marco Rogante, oggetti di scena Belinda De Vito, disegno luci Claudio Parrino, disegno suono Alessandro Sdrigotti

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Friuli, XVI secolo. Aprendo il sipario su un contesto storico e culturale in cui la nascita di una figlia femmina rappresenta di per sé una perdita economica, e il mercato matrimoniale è segnato dalla costante “inflazione delle doti“, lo spettacolo di (e con) Marta Cuscunà prende avvio con una simpaticissima “asta delle spose“; fanciulle conservate nella loro integrità fisica e morale (come vasetti di cetriolini sott’aceto) dalle cure attente dei padri, vengono offerte in moglie al miglior partito (quello disposto ad accettare una dote minore) scelto tra parenti più o meno prossimi (in modo da “far rientrare la dote facendo sposare il fratello della fanciulla con una sorella dello sposo“) o nel ricco mercato dei vedovi (“che però, avendo già fatto esperienza del matrimonio, erano molto attenti all’indole della fanciulla che si mettevano in casa“).

Prima alternativa al matrimonio è rappresentata dalla “carriera” di cortigiana onesta: unico esempio di donna indipendente, che poteva investire su se stessa e contrattare (se stessa) con gli uomini sul loro stesso piano; libera di una libertà (o licenza) “concessa dall’uomo per la propria comodità” ma in qualunque momento revocabile. Seconda alternativa è quella del monacato, della sottomissione volontaria all’imposizione di un modello femminile indesiderato ma che le candide spose di Cristo finivano per credere proprio per un’ossimorica “vocazione imposta” dai padri e accettata dai vescovi. Proprio un’esistenza di “assoluta normalità” dietro a “grate di ferro irremovibile” è ciò che attende la protagonista Angela, novella Gertrude manzoniana, intrappolata nei fili di una tragedia intrecciati verso una lugubre fine, destinata a compiersi con inesorabile puntualità.

Il “libro primo” della Semplicità ingannata ricalca dunque le forme di un dramma (attori e assistenti di scena: interesse, frode, ipocrisia, inganno, tradimento) che si conclude con la cerimonia funebre della novizia costretta, con un voto solenne, un giuramento inviolabile di obbedienza, nodo indissolubile da forza umana, in una bara di velo nero, sepolcro di libertà. Il “libro secondo” si affaccia all’interno del recinto del monastero di Santa Chiara di Udine, dove le novizie, docili e umili pecorelle nell’ombra del chiostro, con la testa abbassata e la bocca “preferibilmente chiusa“, fanno “stridere i denti nelle maledizioni contro i padri che disposero, i vescovi che permisero e coloro che assistettero al sacrificio”.

Proprio qui suor Mansueta, suor Innocenza, Immacolata, Beata, Teodora e Benedetta, (impersonate dai pupazzi in abiti monacali e dall’aspetto di simpatici corvi su un trespolo, cui l’attrice dà magistralmente voce e vita), organizzano una rivolta delle monache, anche se “non sta bene” e anche se “noi donne non siamo fatte per riflettere“. “Ma che fare per ribellarsi?” “E proprio all’ora di cena??” “Non saranno i digiuni che danno alla testa?” “Non sarà l’orologio biologico che fa urlare al corpo – Sono fatto per dare la vita: liberami!-?”

Il monastero delle Clarisse si trasforma in un luogo di salvezza, in cui diviene possibile la creazione di una società tutta al femminile, basata sulla cultura e capace, (attraverso “mitragliate di idee femminili“) di riscrivere la cultura stessa e le regole sociali, sottraendole all’egemonia maschile.

Le suore rivoluzionarie divengono “trafficanti di carta stampata non autorizzata” (Vangeli e Bibbie in volgare, trattati di alchimia e astronomia, testi di medicina e matematica, commedie di Plauto, edizioni del Decamerone non “purgate”, opere di Paracelso sulla natura del mondo e di un universo infinito e increato), trasformano gabinetti e materassi del convento in veri e propri archivi proibiti e iniziano a riflettere sull’assurdità dell’idea che la vita sia generata da un Dio maschio che partorisce un figlio maschio… molto più logico supporre che “Dio è una donna!“.

Il fervore culturale del Friuli del Cinquecento travolge anche queste donne (al pari di quelle chiuse tra le mura domestiche) come uno sciame di api di fronte a un paniere di fiori, conquistando loro la stima e il rispetto di tutta la cittadinanza di Udine, che riconosce in esse una guida per la comunità e le difende dalle accuse di eresia mosse dal vicario patriarcale Jacopo Maracco, che vuole processarle.

In pieno clima di Controriforma, le Amazzoni della cultura libera e critica, non si lasciano però intimorire dal tentativo di “riformarle” e, sulle note di una colonna musicale degna di “Mezzogiorno di fuoco”, affrontano il vicario (che ricalca ironicamente e grottescamente la gestualità del manzoniano don Abbondio sorpreso dai bravi), perché “questo processo non s’ha da fare, né domani, né mai“…

Il processo invece si farà, a Venezia, di fronte all’inquisitore Francesco Barbaro: le monache, accusate di aver pregato “con le terga rivolte all’altare“, di aver tenuto nel monastero due immagini sacre “incrociate” (“Ma ce le hanno date già così, con quel povero figliolo già inchiodato!“) e di non essere a conoscenza dell’abolizione del limbo da parte dei vertici del cattolicesimo (“Ma perchè, dava fastidio a qualcuno??“), si difenderanno strenuamente esibendo tutto il trito armamentario degli stereotipi femminili, fingendosi “autentiche svampite oche” per “addomesticare gli uomini” e “dare a Cesare quel che è di Cesare“…

Assolte, le clarisse preserveranno il loro spazio di libera contestazione e di libero pensiero (siamo nel 1560 circa), fino a essere dimenticate e poi sessanta anni dopo) disperse. Il loro ordine verrà smembrato dall’autorità costituita e ogni prova o documento del loro minaccioso esperimento di società femminile verrà distrutto. Le “pericolose donne” verranno ricondotte nuovamente sotto il giogo della santa obbedienza… Forse.

Con intelligenza, ironia, freschezza e profondità, questo spettacolo, dà nuova voce alla problematica (spesso trascurata) della condizione femminile attraverso i secoli; celabra il pensiero critico come forma di affermazione di dignità personale, esalta la cultura come strumento di libertà capace di oltrepassare qualsiasi barriera: sia essa una grata di ferro, un velo nero o una cortina di pregiudizi e discriminazione sessuale. Ammirevole inoltre l’indubbia capacità artistica di questa giovane attrice, che riesce a coinvolgere il pubblico incessantemente per 90 minuti di monologo, suscitando emozioni eterogenee, sorrisi e riflessioni. Attraverso la voce di Marta Cuscunà prendono vita personaggi “reali”, credibili, divertenti per quanto “impegnativi”, appartenenti a entrambi gli universi maschile e femminile, rappresentanti di sistemi di valori contrapposti, di pregiudizi fossilizzati e, dalla parte opposta, di un desiderio di libertà destinato a prevalere grazie all’intelligenza, alla forza, alla femminilità in tutte le sue possibili declinazioni.

Chiara di Paola

Teatro Verdi 15- 24 marzo, www.teatrodelburatto.it



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