13 novembre 2012

I ROM, LA CASA, LA NOSTRA CITTÀ E ALTRE COSUCCE


Nelle prime righe dell’articolo di Maurizio Spada “Dalla casa bene rifugio alla casa sociale” sul numero 35 di ArcipelagoMilano, mi imbatto in questa affermazione: “A parte i popoli migranti come i Rom tutti gli altri hanno bisogno di una casa:” e subito dopo “ora osserviamo che a questo bisogno fondamentale si risponde nei modi più disparati.” Rom: se non col nomadismo inscritto nel Dna, è gente che non è destinata a stanziarsi e quindi di casa non ha bisogno? Anzi: non siamo noi i cattivi che non vogliamo concedergliela, sono loro a non averne bisogno, così norme e diritti sono salvi. Ma che differenza può esserci tra un nomade e un migrante? Quel “popoli” iniziale che muta una condizione accessoria e temporanea (l’essere migranti) a una situazione culturale loro (il popolo migrante), senza individuare una altro aspetto partorito da noi (un popolo sfollato e cacciato, quindi per forza migrante).

Altro sconcerto: la testata che ospita l’articolo. “Politicamente” sono preoccupato che anche qui passi il discorso di bisogni abitativi differenziali (attenzione: si comincia con una minoranza, per passare in seguito alle altre fasce deboli di popolazione). Leggendo il resto dell’articolo, alla fine mi rimane un senso di delusione: impreziosito da citazioni di Heidegger, oltre che degli imprescindibili Marc Augè e Housing Sociale, che in questi casi non mancano mai, ma quello che si presenta come un viale elegante, si chiude come un vicolo senza uscita.

Come partire dai “Rom [che] tutti gli altri hanno bisogno di una casa” per arrivare ai “modi più disparati”? Non è un esercizio filosofico, vorrei ragionare su un concetto che partendo dai Rom (e dai Sinti, e dai Caminanti) potesse essere utile in una discussione meno settoriale, senza finire per forza nell’utopia. Lo spunto è dato dal Progetto Rom, Sinti e Caminanti del Comune di Milano, presentato pubblicamente a luglio di quest’anno, e che dovrebbe essere votato in giunta entro fine mese. Il progetto finale dovrebbe contenere tutta una serie di osservazioni, maturate dal confronto con associazioni, consigli di zona, i rom stessi; una novità importante. Riguardo l’abitare, mi vengono in mente le proposte fatte due anni e mezzo fa dal Tavolo Rom.

Se “popoli migranti” e abitare sono destinati a non incontrarsi mai, sanciamo una situazione abitativa già attualmente insostenibile e che tenderà a peggiorare per tutti: le condizioni socio sanitarie di un qualsiasi insediamento spontaneo lasciato a se stesso, non si fermano ai limiti del campo, ma tracimano. Le malattie sono per loro natura antirazziste, colpiscono tanto Rom che i loro vicini, il degrado umano e urbano di un campo abbandonato ricade su tutta la zona circostante. Quindi la questione del superamento dei campi attuali va affrontata nello spirito del riformismo milanese degli anni ’60, quando menti e risorse furono impiegate per risolvere l’emergenza sociale e abitativa dei tanti immigrati che arrivavano dal sud Italia.

Vediamo alcuni punti del documento di due anni fa:

1) Da almeno da una ventina d’anni, Rom e Sinti abitano (o occupano) case. In alcuni casi, senza grossi problemi (e noi smettiamo di considerarli Rom e Sinti, come se la normalità non fosse una notizia), in altri casi le situazioni sono più conflittuali. Vuoi per una sorta di integrazione all’incontrario in cui le devianze sociali maturate in un campo rom si saldano con le tipiche devianze da ghetto urbano, o quando la destinazione d’arrivo si trasforma da campo orizzontale a verticale, replicandone tratti positivi e negativi. Ma il fenomeno dell’urbanizzazione riguarda tutti i gruppi presenti in città.

2) Un problema legato al passaggio da una stanzialità non riconosciuta (campo sosta) a una ufficiale (casa), è la sostenibilità. Non si può parlare di percorso verso l’autonomia, quando chi sceglie di andare ad abitare una casa, non ne ha i mezzi; si ricade nella dipendenza dalle mafie locali, piuttosto che dalla chiesa, dal volontario o dall’associazione di turno. O nella mentalità del ghetto: ricercare le risorse necessarie all’interno del proprio clan, senza interazione col mondo circostante. Se di lavoro si tratta (ma è meglio il termine sostenibilità), pur in una situazione di grave crisi ci sono da anni Rom e Sinti che hanno trovato lavoro, come dipendenti o lavoratori autonomi, persino imprenditori, e altri si sono riuniti in cooperative. Il documento propone la creazione di un’agenzia, con compiti di supporto e consulenza, che veda la presenza di soggetti istituzionali, sindacali e di categoria. Ma, una simile agenzia dovrebbe farsi carico anche del problema più propriamente sociale: cioè il rapporto altamente conflittuale col resto della popolazione, che va mediato e governato per evitare “crisi di rigetto”. Ennesimo ente differenzialista? Dipende dai soggetti locali che si riusciranno a coinvolgere: perché una simile unione e confronto di forze diverse, si trasformi in un laboratorio di mediazione sociale diffusa, nell’interesse generale.

3) Alcuni Rom e Sinti, dei gruppi più diversi, sono disposti a trasferirsi in cascina, potendo mantenere lì uno stile di vita familistico, più vicino alle loro tradizioni. Molti hanno aperto un mutuo da anni, eppure sono ancora “parcheggiati” in un campo. Il discorso, comune anche stavolta, è: se non ci fossero queste famiglie, il capitale edile di queste cascine abbandonate, che fine farebbe? È una questione da affrontare con urgenza anche a livello cittadino, dato che sempre di più si parla di città metropolitana, che supera grandemente i confini cittadini.

4) La scarsa attenzione che viene riservata alla città fuori dalla cerchia dei Navigli, ci porta in quel terreno esteso e indefinito della periferia metropolitana. Proprio lì dove si ammassano i campi rom, comunali e spontanei. Se di superamento vogliamo parlare, ho in mente un esperimento che da poco è nato nel campo comunale di via Idro: lì periodicamente si svolgono proiezioni di film, presentazioni di libri, riunioni e feste aperte alla cittadinanza sfruttando tanto gli spazi comunali che quelli privati. Il campo si trova all’inizio del neonato Parco della Media Valle del Lambro, è sede di una cooperativa di operatori del verde: lì sarebbe del tutto conseguente. Se aggiungiamo che è in gran parte autocostruito e che le famiglie condividono le loro piazzole con ogni tipo di animale da cortile e fattoria (allevato secondo le norme di legge), quel piccolo insediamento può essere realmente una risorsa per la zona, per le scuole, per gli urbanisti.

Diverse soluzioni, che comprendono vari aspetti, tutti problematici, dell’abitare una metropoli complessa e stratificata come Milano, sbaglieremmo a confinarle alla sola questione rom, si tratta di ragionare su come questa presenza può tramutarsi in ricchezza per Milano, o come ricavare buone pratiche dagli errori politici passati.

Esiste una logica in tutto ciò? Forse sì. Partendo da un gruppo tra i più disagiati e discriminati (in città, come altrove), da milanese ho provato ad allargare il discorso a tutta la comunità che qui vive e interagisce, provando a spostare l’equilibrio dello status quo. Credo che si chiami… forse politica?

 

Fabrizio Casavola

 



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