14 febbraio 2012

ANTONIA POZZI, POETESSA DEGLI ANNI ‘30


Antonia Pozzi ha ancora molto da dire e la sua vicenda umana e poetica sta finalmente uscendo da un immeritato cono d’ombra. Nata nel febbraio 1912 a Milano in via Mascheroni da famiglia altolocata (palco riservato alla Scala, villa patrizia settecentesca di villeggiatura in Valsassina, sci nelle migliori stazioni alpine e viaggi nelle capitali europee), Antonia Pozzi ha scritto in poco più di 25 anni di vita centinaia di poesie, pagine e pagine di diario e un ricchissimo epistolario, mai pubblicati prima della sua precoce morte.

I suoi versi sono stati riscoperti e apprezzati tardivamente, dopo che la sua stessa famiglia per ragioni di convenienza sociale aveva cercato di distruggerli, e oggi la giovane poetessa, suicida con i barbiturici nel 1938, costituisce uno dei casi letterari più rilevanti della vita culturale milanese degli ultimi decenni. Antonia era una ragazza sensibile, troppo avanti per la sua epoca e fuori dagli schemi del suo tempo, emancipata protagonista di relazioni sentimentali tormentate e sconvenienti per l’inizio del secolo scorso, vivace presenza femminile nel circolo letterario di Vittorio Sereni, Gian Luigi Manzi, Luciano Anceschi, Enzo Paci. Non riconosciuta, però, per il suo talento letterario, lei donna che viveva “della poesia come le vene vivono nel sangue” in un mondo maschile che non riusciva ad apprezzarne il talento.

Il Teatro Parenti promuove questa settimana la rassegna “Buon compleanno Antonia!”, con un monologo dai suoi versi, un convegno happening e una visita guidata da suor Onorina Dino, custode dell’archivio pozziano, a Pasturo, nella casa di famiglia, dove la poetessa ha chiesto di essere sepolta, all’ombra della amatissima Grigna che ha ispirato il suo canzoniere di montagna.

Uno spirito eccentrico quello di Antonia, che si sentiva incompresa in famiglia, fuori posto ovunque e dibattuta giorno dopo giorno nella sua inquieta ricerca esistenziale: figlia unica di una famiglia dell’alta borghesia milanese era impegnata socialmente a favore dei poveri delle nascenti periferie milanesi e aiutava gli sfrattati in via dei Cinquecento fuori di piazzale Corvetto – “bambini a centinaia, a migliaia, a frane, a nuvole. Ma strani bambini, che quasi non urlano”; giovane universitaria e raffinata intellettuale progressista, quando alle donne raramente era concesso il privilegio di proseguire gli studi; figlia di un gerarca, non tollerò il clima politico di quegli anni, che la costrinse a veder fuggire i suoi più cari amici Paolo e Piero Treves, ebrei perseguitati dalle leggi razziali.

Incapace per sua stessa ammissione di vestire i panni di una vera donna, quella predestinata in una famiglia religiosa e borghese all’inizio del Novecento: “Io credo che una vera donna non sarò mai, che anzi, cercando malamente di esserlo, finirei col perdere la parte più vera e meno banale di me”. E anche maestra fotografa, sempre pronta a cogliere con l’obiettivo immagini espressive e poetiche, raccolte in una mostra nel foyer del Teatro Parenti.

L’occasione del centenario, dopo la pubblicazione dei suoi inediti e grazie al racconto della sua storia nel bel film di Marina Spada Poesia che mi guardi e al lavoro di tanti estimatori che non hanno permesso che il suo talento venisse dimenticato, riporta all’attenzione di tutti noi un’opera destinata a vincere la battaglia contro il tempo, come aveva profetizzato Montale nell’introduzione alla prima raccolta postuma del corpus poetico di Antonia, Parole. Correva l’anno 1943.

 

 Rita Bramante

 

 

 

 

 

 



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