29 novembre 2011

cinema


 


 

MIRACOLO A LE HAVRE

di Aki Kaurismäki [Le Havre, Finlandia, Francia, Germania, 2011, 93′]

con: Jean-Pierre Léaud, Kati Outinen, Jean-Pierre Darroussin, André Wilms.

 

Cosa c’è di più drammatico della povertà, della clandestinità, del cancro? La presenza di questi tre elementi in Miracolo a Le Havre, ultima opera di Aki Kaurismaki, può spingere, inevitabilmente, a temere un eccesso di malinconia da parte del regista finlandese. Questa supposizione dura il tempo di conoscere il nome del protagonista, Marcel Marx (André Wilms). Il suo cognome è un chiaro omaggio a due personaggi, Groucho e Karl. Due emblemi della comicità e della solidarietà di classe, i due ingredienti imprescindibili che formano la ricetta del regista per dimostrarci che pessimismo e rassegnazione non troveranno posto nel porto di Havre.

Marcel Marx è un anziano lustrascarpe. Questo mestiere, ormai scomparso nella nostra società, gli permette di portare a casa pochi spicci, è solo grazie a una contagiosa gioia di vivere che si garantisce un credito eterno da fruttivendolo e panettiera sotto casa. Le fatiche della quotidianità non scalfiscono l’animo di Marcel, l’uomo non esita un secondo di fronte ai grandi occhi scuri e malinconici di Idrissa, un ragazzo africano arrivato al porto dentro un container pieno di connazionali in fuga.

Il ricovero di Arletty, moglie tanto comprensiva da apparire angelica, lascia un vuoto nel piccolo appartamento della coppia che viene riempito da Marcel per la più nobile delle cause. Il suo aspetto fiero e determinato è il simbolo della volontà di un uomo che fa di tutto per opporre resistenza alla fatalità. Il suo è un incedere sicuro, ogni sua mossa fa parte del piano finalizzato al ricongiungimento del ragazzo con la famiglia a Londra.

La serietà del volto di Andrè Wilms, la sua imperturbabilità mentre spiega con vigore alla guardia del centro di permanenza per clandestini di essere il fratello albino del nonno di Idrissa è un pezzo di rara bravura oltre che di indiscutibile comicità. Kaurismaki riesce così a dar vita a una favola magica e sorprendente. Miracolo a Le Havre è ambientato volutamente in un’epoca senza tempo, in cui la pellicola trova un contatto con la realtà solo nel momento in cui vuole mostrarci l’inumanità dei politici e del corpo di polizia ossessionati dallo straniero, l’eterno stereotipo che racchiude e canalizza paure e odio della popolazione. Proprio in questo periodo di ennesima discussione politica sul diritto alla cittadinanza per gli immigrati, si dimostra imperdibile la lezione di umanità e altruismo di Miracolo a Le Havre.

Marco Santarpia

In sala a Milano: Anteo, Apollo, Eliseo, UCI Cinemas Bicocca

 

 

THE TREE OF LIFE

di Terrence Malick [USA, 2011, 139′]

con: Brad Pitt, Sean Penn, Jessica Chastain, Hunter McCracken, Larmie Eppler, Tye Sheridan

 

«Ci sono due modi per affrontare la vita: la Grazia o la Natura», sussurra Mrs. O’Brien (Jessica Chastain); la Grazia è la via dell’obbedienza e del sacrificio, la Natura, invece, «vuole solo compiacere a se stessa e spinge gli altri a compiacerla». Tra questi opposti germoglia The Tree of Life [USA, 2011, 139′] di Terrence Malick. E sempre tra due opposti cresce la famiglia O’Brien: la severità di un padre (Brad Pitt) e la spensieratezza di una madre impegnati a crescere i figli nel Texas degli anni Cinquanta. Malick mette in scena la quotidianità di una famiglia che, presto (e bruscamente), verrà disorientata dall’incertezza della vita o – meglio ancora – dalla certezza della morte. Crolleranno tutti i pilastri che reggono l’autodeterminazione dell’esistenza, lasciando posto al Fato: improvviso e noncurante. Ma questo è solo un pezzetto del film di Malick. È soltanto un passo all’interno di quella danza onirica composta dal regista. Il fluire lineare delle parole mai potrà descrivere il flusso di immagini che raccolgono l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo. Jack O’Brien (Sean Penn), uno dei figli, nemmeno a distanza di trentanni è riuscito a digerire lo smarrimento causato dalla morte di un fratello. Malick ci trasporta in un flusso di coscienza infiammato dal ricordo, logorato dal dolore.

C’è tanto cinema in The Tree of Life. Un cinema ormai raro, a cui non serve una trama strutturata per dar forma al pensiero. Un cinema che è esperienza, visione. Malick non si accontenta di “mostrare” (che già sarebbe buon cinema), ma “fa vivere”. Fa partecipare lo spettatore a quel viaggio nella spiritualità universale, ricco di dubbi e privo di banalità.

Criticato da molti, per altri un bel film ma alla portata di pochi eletti che masticano filosofia, forse The Tree of Life potrebbe essere soltanto un’esperienza – appunto – da godere abbandonandosi alla potenza delle immagini, allo scorrere delle note. Dico forse, perché non ne sono sicuro. La bellezza di molti film grandi sta proprio nella soggettività che ognuno riesce a esprimere affrontandolo.

Allora, come fosse una sinfonia di note, c’è un modo per affrontare The Tree of Life: abbandonandoci alla sua esperienza, senza il timore di doverci far imprigionare da una trama. Abbassiamo le armi e proviamo, in maniera naturale, a “compiacere a noi stessi”.

Paolo Schipani

In sala: Martedì 6 dicembre ore 13.00 15.40 18.20 21.00 – Apollo Spazio Cinema, riVediamoli.

 

 

questa rubrica è cura di Paolo Schipani e Marco Santarpia

rubriche@arcipelagomilano.org

 

 



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