4 ottobre 2011

LETTERA APERTA A GIORGIO OLDRINI


Caro Sindaco, ti scrivo per riprendere un dialogo che tra noi si è interrotto troppo presto. Forse ancora prima che cominciasse davvero. Per quanto mi riguarda non nutro il minimo dubbio sulla tua onestà e la dedizione che hai per la città di Sesto San Giovanni. Proprio per questo, non avendo alcun timore che il mio pensiero possa danneggiarti, mi sento di dirti qualcosa in maniera del tutto sincera.

È ovvio, parliamo del piano Falck, o meglio, dell’uso di quell’area: non tanto dell’uso che ne è stato fatto per quasi un secolo, quand’era luogo e simbolo del lavoro, o dell’uso che ne sarà fatto, di cui conosciamo davvero poco, nonostante l’adozione di un programma da parte del Comune. Parlo invece dell’uso che ne è stato fatto nell’intermezzo, dal ’96 a oggi, delle proprietà che si sono succedute, delle intermediazioni che hanno contribuito ai passaggi di mano e, non ultimo, dei profitti, o speculazioni, che su quel grande terreno sono stati fatti.

Intanto c’è un punto che va subito chiarito: su quell’area, in quindici anni, mica un secolo, ci hanno già guadagnato, in maniera lecita o illecita, un bel po’ di persone, senza che sia stato posato un solo mattone. E non parlo del custode o del servizio di vigilanza (che qualcuno dovrà pur retribuire), ma di persone che non si muovono per pochi soldi, rappresentanti di grandi gruppi, di istituzioni finanziarie di primario standing, oltreché di transazioni varie sulla cui congruità e liceità sono in corso indagini.

Stiamo dunque parlando di qualche milione di euro, forse di qualche decina. La domanda che mi pongo, da ex amministratore, da ex dipendente del comune e da curioso osservatore, è questa: chi ha davvero pagato o pagherà queste persone, questi servizi, queste intermediazioni, queste plusvalenze e, infine, queste tangenti, se ci sono state. Non dico chi ha pagato materialmente, chi ha firmato gli assegni, ordinato i bonifici o sborsato le banconote. Voglio dire: da dove proviene il denaro e su chi ricadono, de facto, questi costi?

Sarebbe sbagliato pensare a Pasini, il quale ha certamente sostenuto delle spese e non avrà guadagnato quello che si sarebbe aspettato, ma non credo sia uscito dall’operazione in passivo: il prezzo di vendita di cui parlano i giornali, e che sarebbe inferiore al prezzo dell’acquisto, probabilmente non tiene conto dell’accollo di qualche debito da parte di Risanamento. Su quell’area è transitato anche Coppola, via Zunino. Un’operazione di puro trading, dicono. Possiamo pensare che uno dei due ci abbia perso? Sarebbe come credere alla befana.

In questi giorni i magistrati hanno sentito Francesco Saviotti, amministratore delegato di Banco Popolare, impegnato a sforbiciare sulla governance, ma allora direttore generale di Intesa, con responsabilità diretta sull’area crediti. Ecco una persona che potrebbe dirci qualcosa di veramente illuminante. Sì perché per capirci qualcosa bisogna sentire i banchieri e leggere le cronache finanziarie, più che consultare architetti e urbanisti. Pasini sostiene che fu proprio Saviotti a presentargli Luigi Zunino, l’uomo “dalle spalle larghe” di cui c’era bisogno per dare sviluppo a quel progetto così imponente.

Ma davvero Zunino aveva spalle così robuste? Facciamo un passo indietro, torniamo a sei anni fa. La Risanamento spa, oggi tenuta artificialmente in vita a tutela dei crediti bancari erogati, era allora una creatura recente, frutto di una vergognosa spoliazione del patrimonio pubblico. La Risanamento spa è infatti la ridenominazione milanese dell’antica “Società pel Risanamento di Napoli”, istituita da Francesco Crispi nel 1888 per salvare gli investimenti immobiliari seguiti alla legge del 1884, dopo l’ennesima epidemia di colera. Per inciso, anche allora funzionava così: risanamento dei quartieri degradati in cambio di volumetrie nelle aree d’espansione. Il risanamento non l’hanno mai fatto, ma in compenso hanno provocato una bolla speculativa che, tra gli altri effetti, ha contribuito addirittura alla nascita della Banca d’Italia.

E proprio quest’ultima si trovò a essere proprietaria di ingenti patrimoni provenienti dai fallimenti di banche, società e imprese che avevano investito in operazioni edilizie nelle principali città del paese. Tra queste la “Società pel Risanamento di Napoli”, che restò nell’orbita di Bankitalia fino al 1999, quando appunto venne ceduta a Zunino. Il quale pare che “le spalle” se le sia fatte proprio grazie a quell’operazione, visto che gli venne ceduto per 475 miliardi un patrimonio valutato oltre 1.200, tanto che dopo aspre polemiche e interpellanze varie venne addirittura proposta una commissione d’inchiesta parlamentare (si vedano in proposito gli atti parlamentari della XIV Legislatura, 2002-2003).

Adesso, fuori Zunino, perché proprio non era più il caso, pare che ne abbiano trovato uno con le spalle ancora più larghe. Il quale, per prendersi l’incombenza dell’operazione, sembra si sia fatto addirittura pagare 5,2 milioni di euro (V. Malagutti, Il fatto quotidiano del 15 settembre). Altro denaro, notai, advisors, consulenze, transazioni varie. Anche qui, chi paga? Una grande operazione immobiliare non è mai quello che appare: il comune è uno dei referenti, uno tra i tanti, un ostacolo a volte o buono per fare trading in borsa finché è possibile. Dunque ora c’è in arrampicata l’ennesimo capocordata, ma nella cordata sono in parecchi tra banche, investitori stranieri e CCC, il “partner operativo”. Ancora una volta però, chi paga?

Tutto sarà compensato al compimento dell’operazione. Quando le case verranno messe in vendita, saranno gli acquirenti, con mutui generazionali, a saldare il conto. E saranno proprio quei mutui a portare allo stremo la gallina dalle uova d’oro, come abbiamo già visto mille volte dopo il caso napoletano postunitario. Al plastico e al rendering subentra la dura realtà del quotidiano: poche case costruite, bonifiche per modo di dire, cantieri mai finiti, scavi a cielo aperto, fallimenti, fidejussioni inesigibili. Santa Giulia, via Adda, Calchi e Taeggi, porta Vittoria, Santa Monica a Segrate, l’Alfa di Arese, la Galbani di Melzo. Ora ci saranno anche le caserme e il demanio ferroviario. Sesto San Giovanni forse può ancora dare una lezione al paese, ma deve indicarci la strada virtuosa e parlare un linguaggio diverso, non seguire esempi che si sono già rivelati cattivi. Né il potente advisor né l’archistar del momento riescono a nobilitare una retorica dello sviluppo cui non può credere proprio più nessuno.

 

Mario De Gaspari

 



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