27 settembre 2011

LA MILANO DI SCOLA, “TERRA DI MISSIONE”


A far previsioni su cosa avrebbe voluto dire per Milano un arcivescovo che proveniva dalle fila di Cl, i più avevano forse in mente gli exploit attuali del movimento, tra forte presenza di suoi autorevoli esponenti nel centro-destra, scelte anche spregiudicate in difesa di un potere consolidato in molti settori, contiguità con le iniziative economiche della Compagnia delle Opere. In realtà Angelo Scola ha spiazzato un po’ tutti e scompaginato gli schemi dello stesso universo ciellino. Nei riti d’ingresso in Duomo ha dato atto alla genialità di don Giussani. Ma al don Giussani delle origini, di Gioventù Studentesca, al sacerdote che nella seconda metà degli Anni Cinquanta infiammava i giovani appellandosi al “senso religioso della vita”. Guarda caso, un’espressione cara a Montini, l’arcivescovo di allora, posta tra le basi di un’iniziativa straordinaria all’epoca: la “missione di Milano”, annunciata nel ’56 per aprire la Chiesa ambrosiana “ai lontani”, come si diceva allora, alle forze sociali, agli intellettuali, ai preti che non se la passavano bene tra severità del Sant’Uffizio e arroccamenti di papa Pacelli.

Scola si riallaccia direttamente agli anni della “ricostruzione”, che tante speranze accesero in Italia (alleanza cattolici e socialisti), nel mondo (liberazione dei popoli dal colonialismo), nella Chiesa (l’annuncio del Concilio). L’erede attuale della cattedra di Ambrogio, come il predecessore Montini, proclama Milano “terra di missione”. Il che vuol dire – se si superano i mal di pancia che possono venire dall’evocazione di quel sostantivo – avere un’idea disincantata del mondo in crisi di valori (non solo quelli alti, della fede in Dio, ma anche civili, della convivenza) e delle incapacità della stessa Chiesa istituzione a rendersi credibile se si trincera dietro analisi di tipo sociologico, se si piange addosso e si lamenta della scristianizzazione o se addirittura non supera “ogni tentazione di adattamento alla mentalità di questo mondo”.

La meta per Scola è costruire una “città giusta”, che comporta “la condivisione magnanima e perciò equilibrata delle fragilità, delle forme di emarginazione, del travaglio dell’immigrazione”. Insomma, senza tirare il cardinale per la tonaca, si profila un modello di Milano più vicino alle esigenze emerse dall’insoddisfazione maturata negli anni, alla mobilitazione dei giovani, della rete, del popolo arancione che ha portato al cambio di guardia a Palazzo Marino, che non al modello di “città condominio”, dove ciascuno fa per sé e chi alza la voce (a cominciare dalla Lega) condiziona indirizzi e scelte operative.

Non sorprende in tale logica di “decisa assunzione degli obblighi sociali” da parte di ciascuno, strettamente unita a “Gesù centro del cosmo e della storia”, che da Scola venga ora un compiaciuto apprezzamento per “la democrazia sostanziale che nasce dal basso”. Una concezione della cittadinanza e del suo modo di organizzarsi, di esprimersi, di assumersi responsabilità condivise lontana da quell’indistinta volontà popolare che verrebbe addirittura prima del Capo dello Stato (come dice certa polemica leghista) o che giustificherebbe ogni e qualunque atto di governo rendendo chi comanda princeps legibus solutus (presunta verità che il berlusconismo ha cercato di far passare in ogni modo).

Certo, siccome il vescovo è anche uomo di governo, tocca aspettare le scelte concrete, di uomini e di iniziative, i gesti operativi e simbolici, in coerenza con gli apprezzabili attestati dati in Duomo “alla società plurale”, al valore rappresentato da “uno stile di democrazia”, di cui Milano è esempio per tradizione; città, per dirla con Scola, “metropoli illuminata, operosa e ospitale”. Comunque la scossa il nuovo arcivescovo sembra averla data. A Milano, e di qui a un Paese incartato e che vola ormai drammaticamente basso, ma anche alla Chiesa. Sì perché Oltretevere giace nei meandri delle congregazioni vaticane il processo di beatificazione di quel Montini con gli occhi del quale Scola vede Milano, ma anche il Concilio che Paolo VI ereditò da Giovanni XXIII e condusse laboriosamente in porto.

Un Montini che sembra rimosso dalla Chiesa istituzione come se Roma avesse paura di indicarlo come esempio ai fedeli e di scoprirne l’attualità, di uscire allo scoperto e di giocarsi quindi in quell’opera di missione, che per Scola, s’è visto, è andare incontro al mondo e nel confronto aperto con esso, nella condivisione della condizione umana e dei bisogni di tutti, “far trasparire Cristo luce delle genti”, il Cristo – sempre secondo il nuovo arcivescovo che cita il Concilio – delle beatitudini evangeliche: poveri, operatori di pace, assetati di giustizia.

Rispetto a una Chiesa che rivela autosufficienza, Scola riprende il motto “Dio ha bisogno degli uomini”, che fu il titolo di un film cult nei cineforum cattolici degli Anni Cinquanta, quando il futuro cardinale di Milano si formava e tanti giovani incominciavano a sperare nel futuro, fossero sotto la bandiera di don Giussani o di altri movimenti, ma tutti uniti da un sogno: un’Italia migliore, in cui ciascuno potesse contare e concorrere alla determinazione dei destini comuni. Un Paese che non è certo quello di oggi, ma per edificare il quale, non tutto sembra perduto se ciascuno farà la sua parte, cattolici e laici, spes contra spem. Ripartire dagli anni dei sogni (perché tale fu il passaggio tra gli Anni ’50 e ’60) e capire i reali motivi dei successivi tradimenti è una provocazione. Scola chiama Milano. Cosa risponde Milano?

 

Marco Garzonio



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